L’estate ormai sta sfumando, e forse qualcuno di voi si è dimenticato di questo giornalino, o meglio pensate che noi ci siamo scordati di voi, cari lettori? No, niente affatto. Per problemi puramente tecnici,
legati ai tempi di stampa e ricezione degli articoli, purtroppo il tempo di finitura della pubblicazione si è allungato, impedendoci di rispettare il periodo di uscita che ci eravamo prefissi, ovvero il mese di maggio.
Visto il protrarsi dei lavori, e l’estate imminente, con le ferie che tutti quanti ci meritiamo, abbiamo deciso di posticipare questa uscita, ma mettendo insieme un quantitativo di articoli maggiore, che sono giunti
in redazione quasi in contemporanea. Il risultato è quindi un numero praticamente doppio, che speriamo sia di vostro gradimento.
Ora, tra le varie rubriche, avremmo, anzi avevamo già pensato, di inserirne una, dedicata ai lettori; qui saranno raccolte tutte quelle critiche, suggerimenti, utili al nostro miglioramento e non soltanto. Questo sarà
un filo diretto fra voi e noi: un consiglio, un pensiero, uno sfogo, qualunque cosa vi venga alla mente. Aspettiamo quindi un numero sufficiente di vostre comunicazioni, a quel punto inaugureremo questa rubrica,
rispondendovi, si spera, il più esaurientemente possibile.
Arrivati a questo punto, vorrei anche chiedervi di esprimere le vostre preferenze sul formato che gradite di più ricevere del nostro giornalino: sì, attualmente “siamo disponibili” in tre versioni: registrata su audio
cassetta, in formato testo (fruibile da computer, quindi la potete avere su dischetto o via e-mail) e in formatocartaceo. A voi la scelta, a noi la spedizione!
Sembra effettivamente incredibile, ma anche i ciechi, coi dovuti accorgimenti, possono muoversi autonomamente in tutti gli ambienti, dall’edificio alla città.
In questo numero ritengo opportuno approfondire tale questione, che è già stata accennata nel precedente articolo: per un minorato di vista, frequentare l’Università non significa infatti solo
sapersi organizzare bene con gli studi, ma anche sapersi muovere per la città per spostarsi da una sede all’altra; cercherò pertanto di analizzare nella maniera più dettagliata possibile tale tematica.
I cosiddetti corsi di orientamento e mobilità hanno appunto lo scopo di insegnare al non vedente a muoversi nello spazio che lo circonda, con gioia, disinvoltura e spontaneità. Purtroppo, in Italia si è cominciato solo
nel 1989 a svolgere tale attività, a differenza di altri paesi come gli Stati Uniti, dove un cieco poteva già frequentare un corso di orientamento e mobilità dal 1948. In ogni modo, anche nel nostro paese tali corsi
sono, tutto sommato, bene organizzati. Prima dello svolgimento di un corso di orientamento e mobilità, è importante educare al movimento il privo di vista, già da bambino, facendogli fare esperienze corporee e sensoriali
come lo sport, che gli consente di sviluppare le sue capacità di orientamento, permettendogli inoltre di acquisire maggior sicurezza nello spazio, o l’ascolto accurato di ogni rumore, per affinare l’orecchio; con tali
basi un cieco, già all’età di 12-13 anni, è in grado di frequentare un corso di orientamento e mobilità molto più facilmente.
Quest’ultimo si articola in diverse fasi: innanzitutto l’istruttore insegna al non vedente i vari trucchi per orientarsi attraverso i punti cardinali, i quali possono essere individuati o tramite l’utilizzo della bussola
in Braille o attraverso la percezione del calore solare sul corpo. La bussola in Braille è assai facile da usare: battendo alcuni leggeri colpi sul coperchio, si attiva il suo meccanismo e dopo 5 o 6 secondi circa,
alzando piano piano il coperchio, è possibile visualizzare il quadrante con la lancetta indicante, appunto, il nord, e sul quadrante si trovano anche gli altri punti cardinali: il sud è indicato con la s, l’est con la e,
l’ovest con la w. L’altro modo per individuare i punti cardinali, ossia la percezione del calore del sole, è inizialmente forse più complicato, ma sicuramente più economico: si tratta più che altro di sviluppare nel privo
di vista tale percezione, affinché impari a sentire bene dove avverte il calore. In questo caso, i punti cardinali a cui far riferimento sono l’est e l’ovest, ossia il punto cardinale dove il sole sorge e quello dove
tramonta; pertanto, se ad esempio un non vedente percepisce il calore solare davanti a sé prima di mezzogiorno, guarderà verso est, alle sue spalle si troverà ovest, alla sua destra sud e alla sua sinistra nord e così
via. Appurati tali concetti introduttivi al corso, si è già in grado di orientarsi per i percorsi più semplici come gli edifici o gli isolati; il cieco inizia così ad apprendere le tecniche d’uso del bastone bianco.
In seguito, imparerà prima il cosiddetto attraversamento semplice, poi quello dell’incrocio e, infine, quello del semaforo. Per imparare tutto ciò, è necessario saper ascoltare bene il traffico in modo da effettuare
l’attraversamento al momento giusto. Per l’attraversamento semplice non vi sono molte difficoltà, poiché, non appena il minorato di vista avverte una pausa del traffico a lui perpendicolare, può tranquillamente
attraversare la strada, mentre sono assai più difficili gli attraversamenti degli incroci e dei semafori.
Per questi ultimi infatti, è importante non solo l’ascolto del traffico perpendicolare, ma anche di quello parallelo, il quale spesso aiuta il cieco a mantenere la giusta direzione, di modo da non farlo finire in mezzo
all’incrocio.
Infine, la tecnica da apprendere per l’attraversamento del semaforo è molto simile a quella per l’attraversamento dell’incrocio: se infatti, al momento dell’arrivo al semaforo, il non vedente, voltandosi verso la strada,
sente scorrere davanti a sé il traffico perpendicolare, significa che il semaforo è rosso per il pedone; pertanto, l’attraversamento potrà essere effettuato solo dopo aver avvertito lo stop del traffico perpendicolare e la
partenza di quello parallelo. Con tali tecniche, i ciechi arrivano a muoversi in completa autonomia anche in una grande città. Ritengo infine opportuno spendere due parole sul bastone bianco; soprattutto per coloro che
camminano molto, è infatti consigliabile l’utilizzo di un bastone robusto e, allo stesso tempo, leggero.
Finora, il bastone Kellerer, prodotto a Monaco di Baviera, risulta essere uno dei migliori al mondo e prende il nome dal suo produttore: appunto, l’Ingegner Kellerer.
L’impugnatura di questo bastone è realizzata in gomma ed ha una parte piatta per poterci appoggiare comodamente la mano, è assai resistente agli urti ed ha una speciale punta prodotta con una sorta di ceramica che consente
di avvertire meglio, ad esempio, la differenza tra un tipo di pavimentazione e l’altro. Il Kellerer è un bastone telescopico, ossia il secondo pezzo è svitabile ed allungabile a seconda dell’altezza della persona (per un
corretto uso del bastone, quest’ultimo deve arrivare, più o meno, all’altezza della punta dello sterno, a meno che l’individuo in questione non goda di un passo molto spedito). Un altro bastone che è a mio avviso collocabile tra i migliori, è l’Ultraflex, prodotto a San Gallo, in Svizzera. Anche questo bastone è infatti assai robusto e poco più pesante del Kellerer e, a differenza di quest’ultimo, l’Ultraflex è pieghevole e dispone di una comoda custodia da agganciare alla cintura dei pantaloni per potercelo deporre dentro quando non è necessario utilizzarlo. Rispetto agli altri bastoni pieghevoli, l’Ultraflex ha, tra pezzo e pezzo, dei piccoli anelli di congiunzione, i quali lo rendono più stabile e la sua impugnatura, realizzata in legno ed avente anch’essa la parte piatta, è svitabile ed regolabile in altezza.
Il costo di questi due bastoni è assai elevato: il Kellerer si aggira infatti intorno alle 250 mila lire, mentre il prezzo dell’Ultraflex è di circa 300-320 mila lire.
In Italia, fino al 1999, anno in cui è iniziata la produzione del bastone Aniom (associazione nazionale istruttori orientamento e mobilità), il bastone più utilizzato era il Kellerer e, comunque, anche la richiesta
dell’Aniom è col tempo calata, in quanto tale bastone, pur essendo resistente ed anche piuttosto leggero, presentava numerosi difetti. Tuttavia, in questi ultimi mesi, un designer fiorentino di nome Andrea Castagna
ha progettato un bastone pieghevole, anche questo assai robusto e leggero e, sembra, di gran lunga migliore dell’Aniom. Il prototipo di tale bastone è stato presentato il 17 marzo a Verona e forse, dal prossimo maggio,
dovrebbe finalmente entrare in commercio al prezzo di circa 170 mila lire. In ogni modo, sono tuttavia ancora pochi i non vedenti che si muovono da soli, per il fatto che, come ho già più volte sottolineato, le famiglie
tendono a proteggere troppo i loro figli accompagnandoli ogni volta. Inoltre, sono solo due le province in cui i corsi di orientamento e mobilità vengono finanziati dalla ASL: quelle di Pisa e Prato, ma, poiché svolgere
tali corsi è, oltre che un dovere, soprattutto un nostro fondamentale diritto, la ASL dovrebbe a mio avviso sovvenzionarli in tutto il territorio regionale. In ogni modo, è necessario che le famiglie, seppure con la dovuta
prudenza, facciano fare molte esperienze ai loro figli prima del corso, che rappresenta la volata finale per il raggiungimento di un importante traguardo: muoversi autonomamente.
Anche da...soli.
Mi chiamo Elena abito a Milano e poiché non possiedo la macchina, mi capita spesso di usare il treno come mezzo di trasporto.
Verrebbe da pensare:- Cosa c’è di così particolare nell’usare il treno?- Di per se nulla, se non fosse che i treni in Italia sono perennemente in ritardo.
Vale la pena di fare alcune considerazioni.
Non tutti i treni arrivano in ritardo, quelli che partono dal nord Italia molto spesso riescono a mantenere l’orario stabilito, anzi, se partono con qualche minuto di ritardo, dopo riescono addirittura a recuperare e ad arrivare a destinazione in perfetto orario. Quando capita di prendere treni che partono dal sud Italia ecco che incomincia la via crucis delle attese. Si arriva alla stazione da dove si deve partire e già consultando il tabellone si legge: treno proveniente da Reggio Calabria e diretto a Milano Centrale, 50 minuti di ritardo, oppure treno proveniente da Salerno 60 minuti di ritardo, e così via.
Un altro importante fattore da tenere presente, è quello della scelta del treno. Mi spiego meglio. Se si prende l’Eurostar, che come tutti sanno è quello che va sì ad alta velocità, ma è anche il più costoso, allora la possibilità di arrivare in ritardo è molto ridotta poiché questo tipo di treno, ha la priorità sugli altri treni in caso di ritardo.
E’ vero che Treni Italia (così ora si chiamano le Ferrovie dello Stato), rimborsa metà del biglietto per ritardi di oltre 30 minuti per Intercity ed Eurostar, ma è anche vero che il tempo che viene perso per l’attesa non può essere risarcito, ne tanto meno la rabbia che viene mentre si aspetta avendo persino paura a guardare il tabellone, temendo di vedere i minuti di ritardo aumentare inesorabilmente.
Siamo ormai nel XXI secolo ed è semplicemente una vergogna che vi sia ancora questa differenza di organizzazione fra Nord e Sud. Non è un luogo comune ma la triste realtà.
Forse quando esisterà più rispetto da parte degli Enti Statali per l’utente, allora questi disguidi diminuiranno fino a quasi scomparire.
Io aspetto con fiducia che il rispetto verso il tempo altrui vinca sull’indifferenza più totale di un lavoro svolto tanto per essere pagati a fine mese.
Oltre a cambiare nome Treni Italia dovrebbe cambiare la mentalità, mettere il cliente davanti a tutto e cercare di non creargli inconvenienti.
Scusate lo sfogo. ?
L’atmosfera da parecchi giorni era divenuta a dir poco rovente.
A dire il vero, la posta in gioco era decisamente appetibile: detenere il governo per cinque anni della nostra amata e un po’ contorta Italia.
In tutta sincerità, trovarmi a fare un resoconto delle recenti elezioni politiche nazionali, richiederebbe un’analisi lunga e decisamente non semplice, e questo significherebbe oltrepassare quelle che sono le mie intenzioni;
vale a dire mettere su carta qualche mia riflessione fra me e voi, affezionati e pazienti lettori.
Come accennavo prima, l’atmosfera che si è avvertita nelle settimane precedenti il 13 maggio, era indubbiamente rovente, e possiamo dirlo, carica di strane sensazioni che in certi momenti, sembravano aver poco a che fare
con la normale attesa che pure si crea in occasioni di importanti eventi che coinvolgono la collettività. Sensazioni che come avrete intuito, almeno per me erano piuttosto sgradevoli.
Tuttavia, bando alle emozioni! sembrano essere decisamente fuori moda. Se ogni tornata elettorale rappresenta un momento sempre e comunque importante, probabilmente queste elezioni in qualche maniera possedevano un
valore aggiunto che in altre occasioni non c’era.
Come tutti sappiamo, l’Europa in questi ultimi anni, sta cercando di darsi un nuovo volto, un nuovo aspetto economico oltre che politico del tutto diverso da quello che è stato per decenni. Finalmente, anche se con
estenuante lentezza, stiamo avviandoci a formare gli Stati Uniti d’Europa, che nell’interesse di tutti rappresenteranno la controparte che garantirà un giusto equilibrio al predominio degli Stati Uniti d’America,
incontrastati e indiscussi governanti del mondo. Come è del tutto intuibile, in queste condizioni, poter contare su un’Europa veramente in grado di avere un peso nello scacchiere politico mondiale, non solo è del
tutto auspicabile, ma direi ormai indispensabile.
Tornando all’Italia, tutti conosciamo i grandi
sacrifici che il nostro paese ha affrontato
negli ultimi anni per riuscire ad essere in
regola con i vari parametri richiesti per
far parte a pieno titolo della comunità
europea. Senza dubbio, l’Italia, non
più di cinque o sei anni fa, navigava
in acque veramente pericolose, basti
pensare all’enorme debito pubblico, o
alla grave arretratezza nelle
infrastrutture d’ogni genere, tipiche
dei paesi più avanzati.
Oggi, a distanza dei prima citati cinque anni circa, molte cose sono state fatte, e l’Italia, pur restando il tallone d’achille europeo, sembra ormai avviata verso un profondo cambiamento sia di tipo strutturale, e col tempo anche a livello culturale. Credo che possano bastare queste poche considerazioni, per comprendere la grande responsabilità che il nuovo governo si troverà sulle spalle. Il nostro paese si trova a metà del guado, e i prossimi anni sono veramente fondamentali per una nostra definitiva consacrazione a nazione leader con le altre del nord europeo, che come dicevo prima si accingono a segnare la vita socio-culturale del mondo.
Ora, con queste succulente premesse, come ogni cittadino attivo, mi sarei aspettato una campagna elettorale basata su uno scontro duro, ma ricco di contenuti utili a farci comprendere le strategie che i due grandi schieramenti in campo avevano intenzione di proporre.
Munito di grande pazienza ho seguito per quanto possibile le varie trasmissioni televisive che proponevano dibattiti politici fra i vari contendenti.
Purtroppo, nonostante le molte ore passate dinanzi al televisore, le uniche cose che ho ricevuto come informazione, sono stati i continui attacchi peraltro, del tutto puerili, che i vari protagonisti si sono scambiati.
Uno stillicidio continuo di insinuazioni, cose non dette ma fatte intuire, ironie continue che da un fronte politico schizzavano all’altro e viceversa. Dopodiché niente! tutto qui. Neppure la magra soddisfazione di poter osservare i due rivali in un faccia a faccia, che se pur assolutamente non bastevole a chiarire i reciproci programmi, avrebbe reso più concreto tutto il periodo pre-elettorale.
Insomma, tutto si è svolto in attesa di un qualcosa che non è mai giunto.
Per quanto mi riguarda, il giorno in cui mi sono recato nella cabina elettorale, ne avevo sentite di tutti i colori, ma se mi avessero chiesto di ripetere almeno in parte i programmi dei vari schieramenti, non avrei sinceramente saputo da dove iniziare.
Prima di concludere questo mio articolo, mi è d’obbligo spendere due parole, sugli spiacevoli e poco professionali inconvenienti accaduti in alcuni seggi elettorali. Quello che mi è sembrato abbastanza inaccettabile, è stato il fatto che qualche esponente politico, già durante gli spogli delle schede, insinuava che tali contrattempi, potevano forse in qualche maniera nascondere cose non troppo pulite.
Queste mie considerazioni, in nessun caso intendono condannare ne difendere alcuno, considerando che per principi personali, mi ritengo del tutto lontano da quello che è oggi la politica, sia nazionale, che mondiale.
Distacco, dovuto al semplice motivo che la stessa politica, è ormai divenuta un inestricabile groviglio governato da meccaniche difficilmente spiegabili, ma che ha portato al risultato certo, che è pia illusione credere in un governo che si adoperi veramente a favore del semplice cittadino.
Ciò detto, vorrei ricordare che gli Stati Uniti d’America considerati numero uno per organizzazione pubbllica, dopo le ultime elezioni presidenziali, hanno continuato ad analizzare per un mese circa le schede elettorali.
Ripeto un mese di corsi e ricorsi, conteggi su conteggi, annullamenti di voti espressi, etc. farsa che ha lasciato più di un dubbio a molte persone.
Figurarsi se quel pandemonio fosse accaduto in casa nostra!
Qualche anno fa ho cominciato a sperimentare con i bambini a cui insegno educazione ambientale alcune esperienze del tutto nuove, in maniera involontaria, all’inizio, suggerita dall’enorme fantasia e voglia di gioco dei
miei alunni. Sono convinta che il modo più proficuo per far capire ai bambini dei concetti di ecologia/biologia sia di farli immergere nell’ambiente, di andare fuori, di vivere concretamente quanto c’è da imparare.
Ma in effetti, uscendo dallo schema della lezione frontale, teorica, in classe, succede qualcosa di stupefacente, non tanto ai ragazzi quanto all’insegnante.
I bambini sanno "ambientarsi" come a noi adulti non riesce, o meglio non riesce più; toccano, guardano, annusano, assaggiano (ohibò), ascoltano e scoprono mille particolari che normalmente sfuggono all’attenzione degli
adulti: e tanto più sono piccoli, tanto più sono in grado di apprezzare e notare particolari, sensazioni, emozioni.
Ho cominciato ad imitarli soffermandomi a "sentire" l’ambiente circostante, e se pur con una certa difficoltà (inerzia) iniziale, ho scoperto un mondo incredibile. E mi sono sentita limitata ed impotente.
Ho cinque sensi e non me ne rendo conto. Vedo e non osservo. Sento e non ascolto. Fiuto e non annuso. Mangio e non gusto. Sfioro e non tocco.
C’è una dimensione incredibilmente grande per ogni senso ma sono incapace di entrarci. Anzi non ne conosco nemeno le potenzialità: la uso e basta. E la vista risulta certamente una fregatura perché mi pone
davanti la realtà così come è utile conoscerla per riuscire a muoversi in essa con sicurezza, senza il bisogno di porsi in diretto concreto contatto con ciò che la anima e la caratterizza.
Se si può azzardare un neologismo sono una "non sensiente".
Approfondendo questa nuova consapevolezza dei propri limiti, insieme all’architetto Andreini, ci siamo chiesti in quale modo fosse possibile riacquistare una più piena funzionalità delle nostre potenzialità sopite e che
potesse aiutarci illuminandoci in questo percorso formativo. Non è una necessità new age, si badi bene . E’ il riappropiarsi legittimo del diritto di conoscersi per adattarsi meglio all’ambiente in cui viviamo sia esso
naturale, progettato, costruito, antropizzato.
Niente male sarebbe riuscire a concepire un percorso che ci rieduchi a capire ciò che ci circonda nella maniera più completa e appagante. Insomma una specie di itinerario che conduca chi lo percorre dentro l’ambiente
che attraversa, magari all’inizio per mano e poi lasciando che ciascuno tiri fuori pian piano le capacità che ha senza saperlo. Uno studio più scientifico per progettare in maniera completa un simile itinerario deve
quindi soffermarsi sulle potenzialità del proprio percepire cercando di analizzare ciascun senso; è ovvio che la percezione del mondo esterno nasce dall’integrazione delle risposte ai diversi stimoli che giungono ai
nostri recettori e che la reazione a tali stimoli chiave è assai più complessa di un semplice arco riflesso.
Il comportamento nasce dall’integrale delle risposte di ogni singolo neurone attivato. E certamente l’esperienza e gli inevitabili condizionamenti influiscono molto nella soggettività della reazione.
Il maggior "ostacolo" che ci siamo trovati di fronte è che, per collocarci in uno spazio fisico, la vista sembra risultare di fondamentale importanza e che difficilmente riusciamo a concentrarci sulle altre percezioni se
abbiamo la possibilità di aprire gli occhi anche per un attimo. Serve un aiuto da chi si è trovato ad affrontare questo problema per necessità ed ha dovuto trovare delle soluzioni pratiche perché non fosse un ostacolo
così grosso nella vita di tutti i giorni.
Ci siamo rivolti all’Unione Nazionale Ciechi di Pistoia, in particolare all’amico Virgilio, il quale ha accolto con attenzione la nostra proposta e ci ha aiutato a mettere a fuoco obiettivi, metodi e limiti.
Dobbiamo riconoscere che senza l’ausilio di Virgilio non saremmo stati capaci di pensare ad una proposta progettuale veramente applicativa non tanto per ignoranza e per mancanza di esperienza in materia,
quanto per superficialità e incompetenza.
Ogni volta che siamo usciti da
un incontro con Virgilio abbiamo dovuto rimettere in discussione tutto l’impianto dell’idea progettuale.
Caspita che fatica cambiare prospettiva o, strano a dirsi per un non vedente allenato, riuscire a cambiare punto di vista rimettendo a fuoco l’obiettivo!
Dall’incontro avvenuto poi con il Consiglio dell’Unione Ciechi di Pistoia siamo usciti veramente sconvolti; la sensazione immediata era che a noi
mancasse qualcosa non a loro!
Per un non vedente ad esempio il vento, o l’aria in genere, portano importanti informazioni spaziali; chi dei vedenti presenti in sala sa "leggere" le informazioni trasmesse dal mezzo in cui siamo immersi da capo a piedi
dalla nascita alla morte?
Sarà una pretesa egoistica ma perché dobbiamo rinunciare o non conoscere tale percezione se abbiamo la capacità di potenziarla o di riscoprirla?
In un itinerario per non sensienti, quindi progettato a quattro mani da vedenti non sensienti e non vedenti sensienti, il non vedente non rappresenta il soggetto passivo a cui è destinato il sentiero ma il soggetto attivo
indispensabile per attuare il progetto.
Per questo sono stati individuati dei percorsi già gestiti da Enti o Pubbliche amministrazioni su cui sperimentare quest’idea progettuale.
Per partire, individuando problemi logistici e per focalizzare gli aspetti di interesse, il lavoro sarà condotto con l’indispensabile
collaborazione di due amici dell’Unione ciechi di Pistoia, uno non vedente dalla nascita, l’altro diventato cieco in seguito.
Il panorama musicale internazionale è costellato di personaggi meteora che esplodono, magari grazie all’aspetto fisico, vendono milioni di copie di un paio di album dopo di che spariscono. Si sente parlare di
sperimentazione, di nuove atmosfere, ma alla fine quello che si evince è che la musica suonata, dove gli strumenti sono veri, lascia il posto all’elettronica più sofisticata. In questo mondo strano dove,
spesso, gli strumenti che si ascoltano in un brano sono solo campioni sintetizzati emergono i grandi vecchi che sanno ancora mettere le mani su strumenti dove legno, avorio, pelli sono i componenti
più importanti. L’inizio del nuovo millennio ha segnato un ritorno che gli amanti del soul non hanno lasciato a sé stesso: Reptile, l’ultima fatica di Eric clapton.
Il chitarrista inglese dopo alcuni anni di esperimenti più o meno riusciti (da segnalare il flop di "My father eyes") è ritornato alle origini con un disco suonato con BB King, un capolavoro di gusto ed anima,
per esplodere ad inizio anno con questo suo nuovo album che è stato il preludio di un tour mondiale che vedrà "The slow hen" in giro per tutto il mondo con una grande band per promuovere il suo ritorno
sulle scene internazionali. Il nuovo disco non racconta sicuramente nulla di nuovo, il blues non lo scopriamo certo noi, ma respirare atmosfere soul non fa mai male no?
Eric Clapton riscopre i suoni sporchi, magari non precisissmi in pezzi slow come "Second nature", oppure "Come back baby". Se il modo di suonare di Clapton ha fatto tornare sì il calore, ma non ha registrato particolari
cambiamenti nello stile, il canto ha fatto fare un grande salto di qualità all’autore inglese: grouve, calore, sentimento caratteristiche che hanno sicuramente una matrice legata ad ore di studio per avvicinare sempre
di più il pallido Eric alle atmosfere black di Harlem. Reptile non è, comunque, solo atmosfera, il cd contiene anche vere perle energetiche che fanno saltare dal divano pezzi come: "Traveling light", singolo, tra l’altro,
che ha aperto la strada all’intero album, trasmettono sensazioni forti che ti portano, per la gioia dei vicini di casa, ad alzare il volume per gustare al meglio la potenza di questo disco. Indubbiamente "Reptile"
può essere una buona occasione per i più giovani per conoscere un genere musicale che negli anni 60/70/80 ha dato fortissime emozioni a tante masse di giovani che si sono identificate nel rock, nel blues
e negli artisti che ancora oggi portano in giro questo amore per la musica e per la vita, tutte sensazioni che, non dimentichiamolo, affondano le proprie radici nella sofferenza della gente di colore ridotta
in schiavitù dalla bestialità dell’uomo bianco.
Quando il pubblico sente parlare di Giorgia si aspetta sempre prestazioni monster, album di prima qualità; così è stato per l’ultima fatica della cantante romana che si è presentata a San Remo con una canzone che,
per i più, avrebbe dobuto uccidere il festival, invece... "Di sole e d'azzurro" si è rivelata sì una canzone tecnicamente sopraffina, ma un po’ troppo fredda, infatti la palma della vittoria è andata, un po’ a
sorpresa, a Elisa; a questo punto i fans di Giorgia hanno aspettato l’album, si sa che il festival della canzone italiana non rende i dovuti meriti alla singola canzone, molte volte l’album rivela delle perle
inaspettate.
"Senza ali", invece, si è rivelato un prodotto molto freddo, non adatto ad un mercato italiano abituato ad una Giorgia che alterna atmosfere tenerissime a situazioni musicali di grande impatto ritmico ed
emotivo. Stavolta l’artista capitolina ha, per così dire, voluto fare troppo l’americana: pezzi come "Save the world" non possono fare breccia in un mercato dove, comunque, la melodia ha un’importanza
grandissima; in troppe traccie si ha l’impressione di ascoltare una Giorgia che tende ad emulare le voci e le atmosfere d’oltreoceano.
In America, infatti, la sta facendo da padrone l’elettronica, soprattutto per quel che riguarda le ritmiche, e ciò comporta tutta una serie di evoluzioni che non piacciono troppo ad un popolo latino come quello italiano,
stavolta Giorgia non ha fatto "Bingo", non è stata premiata dai suoi fans e dalle radio, noto strumento di divulgazione e promozione, dal momento che, passata l’euforia per la chermesse sanremese, attraverso l’etere
non si è avuta quasi traccia della simpatica artista romana. Le aspettative erano alte dal momento che Giorgia stava vivendo un momento magico iniziato con l’album "Mangio troppa cioccolata" che aveva visto
la collaborazione di un grande come Pino Daniele e proseguito con "Girasole" che aveva mostrato una Giorgia autrice e prodruttrice di se stessa, insomma un momento dorato culminato con una mini tournee con un mostro sacro
del jazz come Harbie Hanckok. Non si poteva che attendere un ennesimo capolavoro, ma, come spesso capita, il momento di maggior splendore prelude ad uno scivolone che smorza un po’ gli entusiasmi.
Ora Bisognerà vedere come l’estate farà bene o male a Giorgia perché nel disco non sono presenti motivi che potrebbero infiammare le spiagge, in passato la canzone "Vieni in vacanza con me" aveva mantenuta viva
l’attenzione anche durante il periodo estivo, notoriamente appannaggio di motivetti più dance che melodici; questo potrebbe significare l’affondamento definitivo dell’ultimo disco di una Giorgia che, sicuramente,
non ripeterà una esperienza simile e, viste le sue capacità ed il suo talento, non tarderà a rifarsi.
A conclusione di tutto, comunque, bisogna dire che in "Senza ali" qualcosa di bello c’è: alla fine del cd si può gustare una versione umplugged (solo chitarra e voce) di "Girasole" che, però, un po’
fa rimpiangere la Giorgia che trasmetteva con le sue canzoni un’energia positiva decisamente unica.
Poche settimane orsono, tutti gli sportivi italiani hanno ricevuto una drammatica notizia: L’ex pilota di formula 1 Michele Alboreto, durante alcuni test che stava compiendo su un circuito tedesco per conto della nota
casa automobilistica Audi, è deceduto a causa di un non meglio precisato incidente. Come facilmente intuibile, la morte di un personaggio famoso, è destinata ad una veloce divulgazione attraverso i mezzi
di comunicazione di massa. Ovviamente anche per Alboreto, è avvenuta la stessa cosa, con una differenza fondamentale rispetto ad altri drammatici incidenti accaduti in passato: la disgrazia che ha colpito
il nostro pilota italiano, ha veramente commosso tutti gli sportivi, ma anche i meno addetti ai lavori.
Certamente, non poteva che essere altrimenti. I motivi di questa grande commozione, si possono semplicemente riassumere in due semplici considerazioni.
1. Alboreto, è stato l’ultimo pilota italiano a guidare una Ferrari nel campionato mondiale. Certamente, gli appassionati ricorderanno l’esaltante campionato 1985, dove Michele, giunse secondo alle spalle di Prost.
Mondiale, che probabilmente avrebbe vinto, se la casa di Maranello non avesse deciso a metà mondiale, di cambiare il fornitore di turbine, passando dalla porsche ad una ditta americana, cambiamento che non portò
niente di buono. Tuttavia, questo pilota offrì un grande contributo alla casa di Maranello anche in momenti decisamente meno felici, mantenendo in ogni occasione un atteggiamento sereno e positivo,
che certamente contribuì non poco a superare momenti non facili.
In secondo luogo, Alboreto possedeva una caratteristica che molti grandi personaggi non possiedono; ci stiamo riferendo alla grande umanità, alla grande sensibilità che faceva di quel pilota di caratura mondiale,
anche un uomo che certamente non guardava nessuno dall’alto in basso. Purtroppo queste due caratteristiche, bravura tecnica e umanità, sono un binomio più unico che raro, Michele, semplicemente le aveva.
Oggigiorno, le vere qualità che contraddistinguono un uomo, non bastano per essere sulle prime pagine dei rotocalchi, e anche per Alboreto è avvenuta la stessa cosa. Dopo la fine del suo rapporto con
la casa di Maranello, sono state poche, troppo poche le occasioni di poter apprezzare le qualità di questo uomo. Eppure il fatto che Michele stesse effettuando test per l’Audi, una delle case
più prestigiose del mondo, la dice lunga sulle sue qualità. Tuttavia, conforme alla sua umiltà, il nostro ultimo grande pilota italiano, anche nell’ultimo suo momento di vita,
non era sotto i riflettori che contano, ma si trovava in un anonimo circuito dove non si ricevono elogi, ma dove la sua grande preparazione, unita alla passione
continuava ad essere la stessa, proprio come nel 1985. La nobiltà d’animo non si compra, e tu ne avevi da vendere.
Ciao Michele, sei stato uno splendido esempio da imitare, ed è per questo che nel cuore dei veri sportivi, splenderai sempre, anche se i riflettori non ti hanno illuminato come avresti meritato.
Anche questo anno siamo giunti quasi al termine della stagione sportiva del torball.
Tale stagione, deve essere suddivisa in due, il campionato ed il torneo di coppa Italia, per il quale non è stata scelta la data ed il luogo della finale.
Ad entrambi i tornei hanno preso parte due squadre toscane, GS Pisa, e Firenze libertas.
Venendo al campionato, che per le toscane ha voluto dire serie b, questo si è svolto in tre giornate; ma prima di arrivare all’analisi tecnica, vorrei fare un breve cenno sullo svolgimento per i nuovi iscritti che
conoscono poco o niente questo gioco, sperando di essere abbastanza comprensibile.
Al campionato partecipano 12 squadre suddivise in due gironi da sei.
Durante la prima giornata ogni squadra incontra le altre del suo girone in partite di andata e ritorno le quali hanno una durata di dieci minuti l’una, suddivise in due tempi.
Dopo di che, ogni girone si divide in due gruppetti formati da tre squadre, ognuna delle quali, nella seconda e terza giornata, incontra in partite sempre di andata e ritorno i due gruppetti dell’altro girone.
A questo punto, sperando di essere riuscito a spiegare decentemente un regolamento abbastanza contorto, veniamo come ho già detto alla sostanza.
La prima giornata, che si è svolta il 10 e 11 marzo, ha visto la squadra di Firenze giocare nel girone di Bari, mentre il Pisa giocava a Piacenza.
I risultati sono stati per tutte e due discretamente buoni, poiché con 12
punti sui 20 disponibili, in classifica si sono ritrovate a pari merito con altre due squadre al quarto posto, a un punto soltanto dalla terza piazza, ultima disponibile per la promozione in serie A.
Nella seconda giornata svoltasi il 24 e 25 marzo a Perugia per la squadra fiorentina e, a Catania per quella pisana si sono decise quasi definitivamente le sorti del loro campionato.
Infatti, il Firenze libertas, con una prestazione decisamente mediocre ha ottenuto solamente due punti sui 12 disponibili, dando definitivamente l’addio alle possibilità di promozione, anzi, correndo il rischio,
di retrocessione ripetendo una prestazione simile nella giornata conclusiva.
Il GS Pisa invece, ottenendo la metà dei punti a sua disposizione, vale a dire sei, ha anch’esso compromesso seriamente la possibilità di essere promosso, dovendo nella terza e ultima giornata ottenere punteggio pieno
o quasi, per provare la rimonta in classifica.
E siamo così giunti all’ultima giornata, giocata nei giorni 28 e 29 aprile.
Mentre un girone si svolgeva a Bergamo, l’altro si disputava a Pisa.
I risultati sono tornati ad essere discreti, ma mentre per il Firenze libertas, i 7 punti su 12 sono serviti ad ottenere una salvezza tranquilla, per il GS Pisa, 8 punti non sono bastati per l’impresa. Un fatto da
sottolineare, è stata la doppia vittoria del derby da parte del Pisa sulla squadra fiorentina, durante questa giornata.
Passando alla coppa Italia, in questo torneo le notizie che riguardano le nostre squadre si possono definire in chiaroscuro, ma prima di arrivare alla cronaca, farò ancora un breve cenno al regolamento della manifestazione.
Le squadre iscritte vengono suddivise in quattro gironi a seconda della collocazione geografica, quindi: nord, centro-nord, centro-sud e sud. Si qualificano le prime tre di ogni ragruppamento che formeranno altri due gironi
del centro-nord e centro-sud e con lo stesso criterio di qualificazione si formerà un ultimo girone a sei squadre che disputerà la finale. Il Firenze libertas e il GS Pisa, erano inseriti nel girone del centro-nord,
che si è giocato il giorno 28 gennaio a Piacenza. Le squadre partecipanti erano cinque e le due squadre toscane, anche se con prestazioni diverse tra loro, cioè Pisa primo e Firenze terzo, si sono entrambe qualificate
giungendo così alla seconda fase che si è giocata il giorno 7 aprile a Venezia Mestre. Qui i risultati ottenuti sono stati di segno opposto. Infatti la Libertas, con una prestazione deludente è stata mestamente
eliminata, mentre la squadra pisana, si è qualificata per la finale sciorinando una prestazione sfolgorante.
Finale di cui ho già riferito, della quale manca ancora data e luogo di svolgimento, incontro di cui daremo conto nel prossimo numero.
Il modo tuo d’amare è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni è il silenzio.
I tuoi baci sono offrirmi le labbra perché io le baci.
Mai parole o abbracci mi diranno che esistevi
e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi, mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire con domande, con carezze, quella solitudine immensa d’amarti solo io.
Quando i primi europei sbarcarono in America vi trovarono delle tribù arrivate a diversi gradi di civiltà, ma che sembravano appartenere alla stessa razza.
Gli esploratori chiamarono "indiani" questi indigeni, perché i geografi situavano allora le Indie sulle rive occidentali dell’Oceano Atlantico. Una teoria generalmente accettata è che essi traversarono lo stretto di
Bering e transitarono dalla Siberia in Alaska. Questo stretto non era largo che ottanta chilometri. Le isole Diomede offrono nel suo mezzo un rifugio naturale; il mare vi è gelato una buona parte dell’anno. E per quale
ragione queste tribù avrebbero trasmigrato dall’Asia in America? Forse in conseguenza d’un cambiamento di clima, forse per necessità di trovare nuovi pascoli, forse per caso. Ad ogni modo la migrazione si produsse prima
della fine dell’epoca neolitica e in un periodo di civiltà piuttosto avanzata, poiché la strada era ignota agli indiani d’America nel periodo della conquista spagnola, mentre le tribù più incivili dell’Asia la conoscevano
da molto tempo. Le orde trasmigranti portarono in America l’arte del tessere, certe cinture, il tiro con l’arco, il modo di accendere un fuoco, quello di smussare la pietra, la fiocina, il cane domestico ed è probabile
che avessero l’abitudine di fumare l’oppio o qualche altra sostanza alla quale gli indiani avevano, al momento della conquista, già sostituito il tabacco, pianta indigena e, più a sud, la coca. Insomma, somiglianze e
dissomiglianze fra le culture dell’antico e del nuovo mondo provano che l’origine è comune e che una divisione intervenne in uno stadio di civiltà ancora molto primitivo. Perché la civiltà nell’America centrale era
così avanzata, mentre le tribù del Nord erano rimaste a un livello tanto più in basso? La risposta è la seguente: il progresso di qualsiasi civiltà urbana è in diretto rapporto con le qualità dell’alimentazione.
I popoli che si dedicano alla caccia e alla pesca abbisognano di immensi territori e non possono creare comunità stabili. Le loro condizioni di vita sono troppo difficili perché essi possano produrre un superfluo
di ricchezza necessario allo sviluppo delle arti e del lusso. L’agricoltura primitiva stessa stenta a superare il livello di quanto è strettamente necessario per la vita e non vi arriva che in particolari
condizioni di fertilità, molto rare: inondazioni annuali di qualche grande fiume o piogge estive molto abbondanti.
Sugli altopiani del Messico il grano cresceva con molta facilità. Da questa condizione derivarono le possibilità di nascita delle arti, delle religioni, dei principi scientifici.
Due civiltà si erano sviluppate in Messico in zone differenti: nel sud, verso lo Yucatan, la cultura Maya; nel nord, nella zona intorno a quella in cui sorge ora Città del Messico, la cultura Azteca.
I popoli della civiltà MAYA formavano una società bene organizzata. Essi erano governati da una nobiltà armata di archi e di lance, ornate di giada, di turchesi e di piume. La loro razza era antica e
profondamente religiosa. Essi veneravano il Dio del Sol Levante, protettore della letteratura, il Dio delle Arti e della Pace, il Dio della Bellezza, il Serpente Piumato, che i loro vicini, gli Aztechi, chiamavano
Quetzelcoatl, l’uccello-serpente. Gli Dei Maya esigevano sacrifici umani, donde la necessità di procurarsi prigionieri. Maya e Aztechi facevano molti sacrifici. Quando Cortez si incontrò con Montezuma, sovrano
degli Aztechi, gli indiani gli dissero che il loro Re sacrificava almeno ventimila uomini all’anno. I Maya avevano inventato un alfabeto, sapevano contare, servendosi dello zero, misuravano gli anni con esattezza
ed elevavano ogni vent’anni una stele commemorativa che chiamavano "Katun". La loro architettura era meravigliosa: costruivano immense piramidi tronche sulle quali erigevano templi, a cui si accedeva per mezzo di scale
gigantesche.
L’altro grande popolo del Messico era più bellicoso di quello Maya.
Gli AZTECHI avevano sottomesso numerose tribù che avevano rese vassalle e che pagavano loro i tributi. La nobiltà azteca, esente da tasse, formava la corte del capo o imperatore. All’imperatore succedeva il fratello o
il parente più prossimo in linea materna. L’ultimo degli imperatori aztechi, Montezuma, fu detronizzato dagli spagnoli nel 1520. I suoi sudditi lo credevano l’uomo più potente del mondo e parlavano con ammirazione
della sua capitale, Mexico-Tenochtitlan, fondata su un isola in mezzo ad un lago e contenente un grandioso palazzo, una piazza gigantesca e venti templi di pietra rossa. Le case, intonacate di indaco, coperte di rose,
brillavano al sole. Sul lago profumato scivolavano quindicimila canotti. Le piramidi dei templi si profilavano sulla sierra: la sera esse si accendevano di fuochi e l’odore dei sacrifici saliva verso l’odioso
Hutzilopotchli, Dio della guerra avido di vittime, poiché gli Aztechi amavano le rose, la poesia e il sangue. Perché questo potentissimo stato crollò al primo attacco degli europei? Perché un impero composto, come l’impero
azteco, di popoli conquistati e ostili è sempre vulnerabile; perché le armi degli spagnoli erano migliori; perché gli Aztechi combattevano per fare prigionieri e gli spagnoli per uccidere; perché gli Aztechi credevano
in una leggenda in virtù della quale il Dio della bellezza, Quetzelcoatl, il Serpente Piumato, avrebbe dovuto un giorno tornare fra di loro sotto forma di un grande uccello bianco, e le vele bianche delle caravelle
spagnole fecero credere agli Aztechi che l’uccello divino fosse venuto a posarsi sul golfo.
Nella regione che è adesso il Perù fioriva un’altra civiltà: quella degli INCA o Figli del Sole. L’impero degli Inca era una monarchia dittatoriale e comunista. Dall’alto del suo palazzo, costruito a quattromila metri
di altezza, presso il lago Titicaca, il Figlio del Sole regnava su milioni di sudditi. Strade militari, guarnigioni, governatori, proteggevano la sua autorità. Terre e mandrie appartenevano allo stato. Un artigiano non
poteva possedere che i suoi utensili. Dal suo raccolto un agricoltore non poteva trattenersi che un terzo: un altro terzo veniva consegnato allo Stato, l’altro all’Inca. I funzionari ripartivano i prodotti agricoli e i
prodotti fabbricati. Il sistema era rigido, ma rispettato, perché l’Inca, despota intelligente, aveva cura del suo popolo.
Gli Incas, come gli Aztechi e i Maya conoscevano il calendario. Ancora oggi si può vedere la torre astronomica dalla quale i sacerdoti osservavano i solstizi. I templi erano poligoni di pietre gigantesche la cui massa
raggiungeva la bellezza. Le preghiere erano simili a quelle dei cristiani, tanto che, tempo dopo, i preti spagnoli credettero che dei santi cattolici fossero passati per quelle terre: "O Pachecamas! Tu che esisti
dal Principio e che esisterai fino alla Fine! Tu che ci difendi dal Male e che proteggi la nostra vita, sei in cielo o in terra? Ascolta la voce di chi ti implora, dagli la vita eterna e accetta il suo sacrificio".
I sudditi dell’Inca producevano opere d’arte, professavano una religione e avevano una vita civile ben regolata.
Gli INDIANI dell’America del nord non avevano, come gli Aztechi, Incas e Maya, conquistato o fondato grandi civiltà. E’ comunque difficile ricostruire la loro storia perché non avevano alfabeto e per comunicare si
servivano di una scrittura ideografica composta di oltre duecento immagini incise su pietra liscia, su lastre di rame o corteccia d’albero; di un sistema di lampeggianti per mezzo di specchi, che permetteva di comunicare
ad una distanza fra gli 8 e i 17 chilometri e del linguaggio a segni. Gli idiomi indiani, infatti, erano cosi numerosi che i guerrieri delle varie tribù quando si riunivano, parlavano tra loro a segni in modo scorrevole e
preciso. Molti di loro erano rimasti nomadi. Quelli degli altopiani centrali vivevano quasi esclusivamente sulle immense mandrie di bisonti che, a milioni, popolavano la prateria. Gli indiani mangiavano la carne
di bisonte, con la sua pelle si confezionavano mocassini, vestiti, canotti: dai suoi tendini ricavavano le corde per i loro archi; dalle sue corna, cucchiai e utensili vari. Seccando e pestando la carne del bisonte
ottenevano una conserva, il “pemmican”, che li nutriva nei giorni di carestia. Come animali da viaggio e da pista, gli Indiani adoperavano i cani. In certi luoghi e in particolare nel sud-ovest (Arizona e New Messico)
certe tribù, dai tempi preistorici, erano diventate stabili ed avevano fondato delle città, i "pueblos". Un pueblo era un’immensa costruzione fatta di case di pietra sovrapposte a scaglioni e arieggiate dal tetto.
Gli Indiani dei pueblo coltivavano il mais, avevano creato un sistema d’irrigazione e addomesticato il tacchino. Ciascun villaggio ne possedeva un branco. Prima del tempo dei pueblo esisteva un’altra civiltà, quella
dei fabbricatori di panieri, che erano diventati molto abili nell’arte del panieraio. Con tinture estratte dalla radice del mogano ed altre essenze, i panierai tingevano in nero, rosso o giallo delle strisce di
scorza di salice o di gelso, e fabbricavano giarre, sandali, sacchi, piatti ornati di disegni geometrici molto belli. Quasi tutti gli indiani conoscevano il tabacco, che fumavano o masticavano o annusavano. Certe tribù
possedevano pipe di pietra o d’argilla, altre fumavano tabacco macinato in piccoli cilindri di pietra che furono le prime sigarette.
La vita sociale degli indiani del Nord era semplice. L’organizzazione sociale era imperniata sulla tribù. Il centro della vita sociale era il fuoco da campo, intorno al quale la tribù si radunava e danzava in occasione
delle festività e delle cerimonie rituali.
In origine, durante queste cerimonie, gli ornamenti di penne non erano portati da tutti gli indiani, ma solo da alcune tribù. Certe volte le tribù avevano un capo, "sachem", altre volte un consiglio di anziani.
Qualche volta, come presso gli Irochesi, più che nazioni formavano una confederazione amministrata da un Gran Consiglio di cinquanta capi e comandata da due capi permanenti. Nel Dakota sette tribù avevano giurato di non
farsi guerra e la stessa parola "Dakota" significava "quelli che ci sono amici". Fra gli indiani della prateria, società come quelle delle Volpi o dei Soldati avevano aderenti in numerose tribù. Questi furono i primi
"Rotariani".
Fra gli indiani del Rio Grande ciascuna tribù e ancora oggi divisa in Rossi e Bianchi, che hanno differenti compiti sociali e religiosi. I sacerdoti (uomini di medicina) avevano due funzioni principali: guarire i malati
ed attirare la pioggia. Gli indiani non avevano immagini di divinità. Costruivano generalmente rozzi altari sui quali dipingevano simboli religiosi rappresentanti le origini soprannaturali delle diverse specie di animali.
Essi credevano che il mondo fosse pervaso da una forza magica che, posseduta dalla divinità (Grande Spirito), poteva anche diventare retaggio umano: il controllo di questa forza poteva dare ai guerrieri invincibilità e
invulnerabilità. Il grande spirito aveva nomi diversi nelle varie tribù. Le pratiche della sepoltura erano differenti da tribù a tribù: seppellimento in posizione rannicchiata o seduta o distesa, cremazione, disposizione
su impalcature, su alberi, su barche o immersione in mare.
Gli indiani eccellevano nelle competizioni sportive, che richiedevano prontezza fisica e abilità atletica, e si dedicavano alla lotta, a gare podistiche e a gare di tiro a segno con le frecce e coltelli. I guerrieri
indiani erano combattenti senza eguali: ad un’eccezionale resistenza fisica, univano coraggio e audacia, temperati ad una istintiva prudenza. Più comune era l’usanza di tingersi il viso e il corpo con una sostanza scarlatta
(da qui il nome di PELLIROSSE) e di tatuarsi.
La donna indiana entrava nella famiglia del marito generalmente per acquisto, sebbene i rapimenti non fossero rari. Tuttavia essa non diventava oggetto di proprietà, per quanto soggetta al marito e al capo tribù.
Il riconoscimento istituzionale della donna sposata è dimostrato dal fatto che, in molte tribù essa prendeva parte ai riti sacri, alla vita cerimoniale assieme al marito. La moglie si occupava di curare i bambini, della
tessitura e della conciatura delle pelli. Il ragazzo indiano, teneramente amato dai genitori era il re dei grandi spazi deserti e trascorreva l’infanzia modellando i giochi della sua vita e i costumi degli adulti.
L’infante, strettamente legato a un’asse, era portato sul dorso dalla madre.
Gli indiani amavano le cerimonie, le danze, i contatti amichevoli fra i capi delle diverse tribù. Erano dignitosi, coraggiosi, stoici davanti alla morte. Erano generosi fra loro e le tribù del Nord-Ovest avevano l’usanza
del "POTLACH", festa durante la quale regali di grande valore venivano distribuiti agli ospiti. Invece erano crudeli con i prigionieri, che venivano torturati e bruciati. L’importanza assunta dalla danza si spiega con la
necessità, per l’indiano, di identificarsi nella divinità e di ripetere gli avvenimenti divini tramandati dal mito. Inoltre, gli indiani credevano che la ricostruzione mimica (cioè mediante gesti e movimenti speciali) di un
particolare e desiderato evento (la pioggia, la fertilità del suolo, un buon raccolto, ecc.) potesse far accadere l’evento stesso. I riti erano vari; le pratiche potevano essere brevi, come una semplice boccata di fumo
mandata verso il cielo, oppure complesse come la DANZA DEL SOLE, la DANZA DEL BISONTE, la DANZA DEGLI SPETTRI. La Danza del Sole celebrava, in primavera, la pienezza del ritorno della vita, e vi partecipava l’intera tribù
come ad un vero dovere pubblico. La cerimonia durava quattro giorni e richiedeva settimane di preparazione. Nelle battaglie non avevano un’organizzazione tattica, ne facevano piani di battaglia o schieravano reparti
organizzati: l’esito del combattimento, dopo che i capi avevano dato ordine d’attacco, dipendeva perciò, in genere, dal coraggio e l’abilità individuali. Prima della battaglia i guerrieri intonavano il "Canto della Morte",
con il quale esprimevano il disprezzo della vita.
L’usanza di scotennare, ossia di strappare la cute del cranio e i capelli di un nemico, non era generale ai tempi pre-colombiani. Gli indiani delle pianure preferivano decapitare addirittura i prigionieri, ma
incominciarono a scotennarli quando le amministrazioni coloniali europee istituirono dei premi di scalpo. Gli scalpi erano più leggeri, più facilmente trasportabili delle teste e si prestavano meglio per la decorazione
delle vesti o delle tende. L’operazione consisteva nel praticare un’incisione circolare nella cute del cranio strappandola con tutti i capelli e non sempre ne conseguiva la morte.
Tratto da alcuni appunti di un po’ di tempo fa, questo articolo è sempre risultato (o quasi), per chi lo ha letto, piuttosto chiarificatore, non tanto su che cosa il computer è in grado di fare, ma come riesce a farlo,
in pratica come è costituito al proprio interno, e non contiene niente di così magico, ma può sbalordire a volte solo perché ha una complessa struttura elettronica. Non me ne vogliano gli esperti, che si troveranno di
fronte a un qualcosa di inutile o banale; tutti devono avere la possibilità di fruire di queste nuove tecnologie, e per poterle usare o sfruttare al massimo, a volte si deve anche capire come funzionano. Spero solo che
queste poche righe possano essere d’aiuto a coloro i quali si sentono un po’ intimoriti di fronte al nostro “cervellone”.
Che cos’è un computer? Alcune persone, di fronte ad una domanda del genere, magari risponderebbero con: «Un computer è un cervello elettronico, cioè tu gli chiedi di fare qualsiasi cosa e quello inspiegabilmente
la esegue», oppure: «un computer è una macchina intelligentissima, basta pensare che sa dirmi in una frazione di secondo la distanza fra la Terra e la Luna!», peggio direbbero: «Non lo so assolutamente. Non sono
un programmatore o un tecnico di elettronica».
Diciamo subito che ho scherzato un pochino, ma la realtà è che molti di noi hanno le idee veramente confuse sull’argomento, e non è escluso che non possano avere un pensiero simile a quelli che ho precedentemente citato
per esempio; comunque, cercherò di essere il più chiaro possibile in merito. Innanzitutto mi voglio agganciare all’ultima risposta di esempio, questo perché vorrei che fosse pacifico che non occorre una laurea specifica
in scienze dell’informazione, elettronica o simili per sapere cos’è un computer e conoscere il suo funzionamento basilare.
Proseguendo a ritroso dico anche che il computer non è una macchina intelligente e fà tutto quello che gli si chiede, come se fosse il genio della lampada di Aladino, semplicemente può conoscere la distanza tra la Terra
e la Luna in base a formule matematiche che gli vengono ‘insegnate’, e può dare l’impressione che esso conosca molte cose, ma solo perché probabilmente (anzi, certamente), gli sono state impartite da un operatore umano.
Già, ’impartire’, ‘insegnare’, il computer in realtà non sa fare assolutamente niente, se non gli diciamo come fare una certa cosa (con un programma, ecco perché esistono i programmatori), e solo dopo potremo chiedergli
qualcosa, che sai che lui sa, e così lui potra dirtela! Buffo no? Ma allora il computer non serve a niente, penserai, visto che sa solo quello che gli viene detto e niente di più; è un po' come quando racconti una cosa a
un amico, e in qualsiasi momento ti dimentichi non devi far altro che parlare col tuo amico, che sarà velocissimo nella risposta e non si scorderà mai nulla, anche se gli avrai raccontato la storia della tua vita, lui se
la ricorderà senza che ci sia una sola vorgola di differenza da come tu l’hai descritta.
Può sembrare che ci sia qualcosa di magico in tutto questo, ma non è così; l’elaboratore fa la cosa più stupida di questo mondo, in questo caso: apre il suo enorme ‘armadio’ (mai sentito della memoria?) e lascia che tu lo
riempia con ciò che vuoi; una volta che tu gli chiederai un determinato oggetto, il computer cercherà nel suo armadio dal primo all’ultimo elemento finché non avrà trovato quello giusto. Certo che se un essere umano usasse
come memoria un simile armadio probabilmente impiegherebbe dei mesi a trovare quello che fa per lui (sempre che non cada esausto dalla fatica...e se subito dopo si dovesse cercare un altro oggetto? No! Da capo).
Il computer non si annoia, non si stanca mai, ed è veloce nella ricerca delle informazioni, anche se fatta in modo così elementare perché lavora con impulsi elettrici che lo stimolano a compiere milioni di operazioni al
secondo. In pratica un computer é una macchina che fa determinati lavori che anche l’uomo potrebbe eseguire, ma molto più efficacemente, in pratica aiuta l’uomo in maniera simile, ma più flessibile di un comune
elettrodomestico, ferro da stiro, aspirapolvere, tostapane, ecc.
L’analogia con gli elettrodomestici comunque è un po’ restrittiva, in quanto la differenza evidente è che una macchina per cucire serve solo per i vestiti, ed una macchina espresso non fa più di un caffè o un cappuccino:
il computer invece può compiere differenti mansioni. E quindi dove sta la differenza? Nella libera programmabilità del computer: ad esso possono essere impartite istruzioni di base di diverso tipo per insegnargli i compiti
più disparati, mentre una lavatrice, anche se con 10 tasti, 5 leve e 2 manopole potrà solo variare la modalità di lavaggio, ma non riuscirà mai a scrivere una lettera, a suonare un brano di musica classica o altro.
Bene, ora che siete dinanzi ad un ignorante, ma non proprio stupido, dovete fare quello che si fa con tutti gli altri utensili, o gli elettrodomestici e simili: dovete usarlo affinché vi sia utile ogni girono nello
svolgimento di attività impegnative e laboriose, dovete ricordarvi che lui non sa niente di più di quello che gli viene detto, ma non se ne dimentica mai. E non dovete pensare che si comporterà in modi strani o
autonomi diversi da quelli previsti dai programmi commerciali; questo vorrebbe dire pensare, ragionere e il computer non è all’altezza del nostro cervello.