Giovani del 2000
Informazione per i giovani non veddnti numero 3 Dicembre2001
Direttore Prof. Carlo Monti
Vice Direttore Maurizio Martini
Redattori Alessio Lenzi, Mario Lorenzini
Redazione
Via Francesco Ferrucci 15
51100 - PISTOIA
( Tel. 057322016
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Sito internet: www.gio2000.it
Tipologia: notiziario
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Firenze al n. 4971 del 26.06.2000
Gli articoli contenuti nel periodico non rappresentano il pensiero ufficiale della redazione, ma esclusivamente quello del singolo articolista.
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Editoriale
- Di Mario Lorenzini
CULTURA
Storia degli indiani d'America, usi e costumi (parte seconda) - Di Luciano Luzzi
Così ho trovato l'arca di Noè - Di Elena Aldrighetti
HOBBY E TEMPO LIBERO
Merda Celtica - Scherzo del cazzo - Di "G"
INFORMATICA
Messaggini sui telefonini finalmente anche noi possiamo - Di Alessio Lenzi
La tecnologia ADSL - Di Alessandro Rossetti
ISTRUZIONE
Convegno sull'integrazione dei non vedenti nell'Università - Di Alessandro Tanini
NORMALITA' E HANDICAP
Quando avere un handicap non vuole dire disabilità - Di Vainer Broccoli
RACCONTI E POESIA
Thaotorra - Di Simona Convenga
RIFLESSIONI E CRITICHE
Siamo sempre più soli - Di Elena Aldrighetti
Troppi e incoscienti - Di Giovanni Sartori
La prima guerra del terzo millennio o forse la terza guerra mondiale? - Di Maurizio Martini
L'amicizia - Di Elena Aldrighetti
SPAZIO DONNA
Violenza e abuso come compagni - Di Veronica Franco
SPORT
I ciechi e la vela - Di Barbara Falconi
La fine di un incubo e di un sogno - Di Maria Garcia
Di Mario Lorenzini
Un rapido sguardo ai contenuti di questo numero che ci danno di riflesso la situazione attuale del nostro paese, e subito ci rendiamo conto (ma c’è davvero bisogno di leggerlo qui?) che c’è qualcosa che non va. Anzi, c’è molto che non va.
Il mondo intero è sofferente, e perché poi? E’ forse il “mal di vivere” pirandelliano che ci affligge? O sono altre le cause da ricercare? Vediamo, su che cosa basiamo il nostro vivere moderno:
civiltà, progresso (più che altro tecnologico), comunicazione globale, ecc. Apparentemente tutte cose positive, almeno dovrebbero esserlo; ma a volte quel che guasta tutto è come si raggiungono certe cose, a scapito di chi o di che cosa, in nome di un certo guadagno (sociale, politico, economico, miglior qualità della vita...) che in
realtà si traduce in un “cospicuo guadagno” (spesso solo economico!) ristretto a ben poche persone.
Arricchirsi vendendo cose costose ad altri può andar bene, ma se l’oggetto della compravendita è qualcosa di pericoloso, nocivo, non solo per me proprietario della merce, ma anche per il resto della società, forse dovrei riflettere un momento e decidere di farmi un bel sonno (la notte porta consiglio) e magari decidere di far altro. Magari si potrebbero evitare conseguenze spiacevoli. Ma è inutile dire quello che tutti sanno, ciò che è sotto gli occhi di tutti.
Un cenno, doveroso anche se breve, alla tragedia terroristica scatenatasi lo scorso 11 settembre, uno stupendo, meraviglioso esempio da non imitare, di come e quanto si possano mal investire tempo e denaro. La gente è piena di debiti, muore di fame e di malattie gravi perché non ha il sostentamento monetario necessario, e chi è miliardario invece che fa? Rispondete voi lettori.
Mi auguro tanto che quando queste pagine giungeranno a voi, questo conflitto sia già terminato, o in via di risoluzione. La vita umana è il bene più prezioso che abbiamo, pensiamoci bene, la prossima volta...
Mi stacco da questo argomento, i media già ci forniscono aggiornamneti continui, non è mio compito fare informazione, ma soltanto esprimere un parere.
Adesso voglio darvi l’indirizzo internet presso cui potete trovare depositato questo giornalino, gli utenti che “navigano” sanno come accedere e scaricarlo:
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Ogni lettore deve solo indicare la propria preferenza e noi invieremo “Giovani del 2000” nel formato richiesto.
Voglio ora augurarvi buona lettura come al solito, ma anche un buon Natale e un anno nuovo migliore per tutti noi, e mi raccomando: non facciamoci intimorire dall’Euro!
CULTURA
Storia degli indiani d'America, usi e costumi (parte seconda)
Di Luciano Luzzi
La casa ci fornisce informazioni sul tipo di vita e sullo stato sociale di un popolo.
Generalmente si associano indiani e tende, mentre la maggioranza degli indiani viveva in case. Alcuni indiani vivevano in caverne, soprattutto in Arizona. Ma molti utilizzavano le caverne come rifugi per l’inverno.
Quando saranno perseguitate le tribù COMANCHE e APACHE si rifugeranno in caverne difficilmente accessibili, abbandonando i loro accampamenti in pianura.
Nelle regioni delle steppe o del deserto, come il Grande Bacino, la scarsità di vegetali non permetteva la costruzione di solide case, gli SHOSHONI, gli UTE e i PAIUTE si riparavano in capanne fatte di cespugli intrecciati.
Nelle pianure i popoli cacciatori avevano bisogno di un habitat facile da spostare per poter seguire le mandrie. Questi popoli utilizzavano le pelli degli animali uccisi per fabbricarsi dei Tepee.
Queste caratteristiche tende dei nomadi delle pianure avevano come armatura cinque o sei lunghe pertiche sulle quali gli indiani poggiavano pelli di bisonte o daino, in seguito pelli di vacche o teli. In cima al tepee, accanto al foro per il fumo, c’erano le alette d’aerazione. All’interno il terreno era ricoperto di rami di salice o di betulla sui quali, d'inverno, si stendevano pellicce.
Il focolare era al centro, cosicché il fumo usciva dal foro praticato in cima alla tenda. Il mobilio era formato da sacchi di pelli, da pellicce, da oggetti di cucina di legno. La parte esterna era decorata con motivi simbolici e religiosi.
Vicino alla tenda si trovava la rastrelliera per essiccare la carne, la madia della famiglia, poggiata su alti pioli per impedire agli animali di raggiungerla.
Molte tribù facevano uso alternativo di una casa fissa per l’inverno ed una mobile per l’estate. Per esempio i CHIPEWYAN, che vivevano d’estate nella tundra sotto tende in pelli di Caribù, e d’inverno ritornavano nella foresta per abitare in case di legno. Invece gli HIDATSA, nella vallata del Missouri,
coltivatori d’estate, vivevano in case di legno, mentre dovendo cacciare il bisonte d’inverno utilizzavano il tepee. Per coprire le loro tende, gli indiani del Canada utilizzavano cortecce d’alberi, soprattutto la corteccia di betulla.
Questa corteccia serviva per la costruzione di una capanna rettangolare, la WIGWAM. L’ossatura era costituita da pioli infissi nel terreno, ricoperti da
larghe cortecce di betulla o olmo.
D’inverno queste cortecce erano sostituite da stuoie di giunco intrecciate o da foglie di typhos, che davano più calore. Il focolare era al centro: tutt’intorno venivano costruite delle piattaforme come giacigli. In queste capanne non c’erano fori nel tetto per l’uscita del fumo, che usciva bene o male dagli interstizi di esso: l’interno era quindi perennemente fumoso, le pareti ben presto tappezzate di fuliggine; per non morire asfissiati dormivano faccia a terra. Molto più elaborata era la lunga casa degli IROCHESI.
Chiamata ONGWANONSIONNA da essi. Questa casa di forma rettangolare molto lunga, dai 10-20 metri larga dai 3 ai 9 metri e alta dai 4 ai 5 metri.
L’ossatura era costituita da pioli, base della costruzione, da lunghe pertiche verticali che formavano il tetto a forma di culla. Il tutto veniva ricoperto con strati di corteccia uniti tra loro per formare il muro. La casa non aveva finestre, solo due aperture a ogni estremità per la fuoriuscita del fumo.
All’interno, erano allestiti dei compartimenti per le due o tre famiglie che vi abitavano; si disponevano dei soppalchi su cui si poteva dormire e poggiare dei cibi. Vi era una sola porta d’ingresso che veniva chiusa con sbarre.
I villaggi Irochesi raggruppavano un centinaio di case, erano circondati da una solida palizzata e costruiti sulle rive di un corso d’acqua o di un lago.
Sulla costa del Pacifico, i TLINGIT utilizzavano il cedro delle immense foreste che ricoprivano il territorio interno. Con utensili in osso o selce riuscivano ad abbattere questi alberi e a ridurli in legna per la costruzione delle case.
Drizzavano diversi tronchi uno di fronte all’altro, alzavano le pareti con legna e con lo stesso materiale ricoprivano il tetto. Queste case erano molto ampie:
15-20 metri di lunghezza. Gli ambienti per le famiglie erano disposti intorno a un grande ambiente comune dove c’era il focolare. I tronchi negli angoli erano scolpiti come i pali totemici all’esterno. Erano di circolare con un diametro di 15-20 metri. Le fondamenta erano scavate a 50 - 70 centimetri nel suolo; dal
suolo si alzavano travi di circa 2 metri d’altezza che sostenevano all’esterno la terra che formava le mura. Travi traversali formavano il tetto. Il tutto ricoperto da uno strato di argilla che asciugando induriva.
Quanto ai MANDAN, pur essendo tribù delle pianure abitavano in case di terra. I PUEBLOS facevano uso di mattoni che ricavavano dal fango misto a paglia; essiccati al sole, servivano per formare le pareti. I loro villaggi sono costituiti da case di pietra e calcina, grandi; le più piccole erano a due piani con un tetto piatto, le altre di tre, quattro piani e quelle del signore di cinque, tutte ben allineate; e sull’architrave delle case più importanti spiccavano molte decorazioni in turchese. Le case erano legate le une alle altre, con grandi terrazze alle quali si accedeva per mezzo di scale; viste dall’esterno sembravano un solo edificio.
I NAVAJO costruivano le Hogan, capanne di legno ricoperte d’argilla.
La maggior parte delle tribù indiane, accanto al villaggio costruiva un "sudario". Era una capanna bassa, fatta ad archi intrecciati, ricoperta di pelli, oppure una semplice capanna ben chiusa. Si lanciava acqua su pietre surriscaldate che sprigionavano vapore facendo sudare coloro che si rinchiudevano all’interno. Poi si usciva per tuffarsi in un corso d'acqua. Questa sauna indiana non serviva solo per l’igiene del corpo, ma rispondeva anche a un bisogno di purificazione necessaria per raggiungere certe visioni.
I pellirosse erano divisi in numerose tribù, ognuna delle quali aveva proprie tradizioni, proprie leggi e parlava un dialetto spesso incompressibile alle altre. Alcune tribù, in caso di particolari necessità, si riunivano in confederazioni.
La tribù era governata da un capo il quale, però, non godeva di un’autorità assoluta: egli era, più che altro, l’esecutore dei voleri del suo popolo.
Gli uomini della tribù, riuniti attorno al fuoco del consiglio, esprimevano la loro volontà, anche le donne e i giovani presso alcune tribù, partecipavano a
queste sedute. Prevaleva però sempre il parere degli anziani, più ricchi d’esperienza e perciò più saggi. Una volta presa una decisione, tutti seguivano gli ordini del capo con la massima disciplina. Il capo tribù manteneva la sua carica finché l’età glielo consentiva, poi designava lui il suo successore, che poteva essere suo figlio o sua figlia. Questa nomina, però, doveva essere accettata da tutti i notabili della tribù, ossia da quei guerrieri che avevano compiuto il maggior numero di imprese gloriose. Se essi indicavano come capo successore un altro guerriero che s’era mostrato più coraggioso dell’erede legittimo, quest’ultimo doveva senz’altro cedergli il titolo.
Nella società indiana delle praterie, certe famiglie possedevano più cavalli di altre e avevano tepee più grandi. Ma ciò non impediva ad un ragazzo di famiglia povera la conquista del benessere, o rubando cavalli (ai nemici e ai bianchi) o prendendoli in battaglia; né di fare un matrimonio in una famiglia ricca. I benestanti sentivano l’obbligo sociale di dare grandi feste e fare bei regali.
Tra gli indiani delle praterie nessun capo aveva autorità suprema sul suo popolo.
Ai capi conosciuti come buoni mediatori di pace era spesso richiesto di arbitrare dispute.
Ma le questioni serie erano spesso risolte in un concilio.
Le liti all’interno della tribù venivano usualmente risolte per mezzo della persuasione.
L’omicidio era raro, ma quando avveniva i Cheyenne, di regola, esiliavano il colpevole dalla tribù. I Crow e altri costringevano l’assassino a risarcire con merci o cavalli la famiglia della vittima. Chi agiva contro il benessere della tribù poteva venire privato dei suoi beni, essere esiliato o anche messo a morte.
Fin dall’infanzia il bambino sognava il giorno in cui avrebbe cavalcato alla caccia o alla guerra insieme agli uomini. All’età di sette o otto anni era già un esperto cavaliere e gli veniva affidato il branco domestico.
Fratelli ed amici si esercitavano al tiro e già a dieci o dodici anni cacciavano insieme i vitelli dei bisonti.
Intorno ai diciotto anni era loro permesso di aggregarsi alle bande sul sentiero di guerra e di rendere servigi ai guerrieri adulti. Gli amici cercavano di entrare nelle stesse società militari, così da poter impugnare insieme il tomahawh e, se necessario, morire insieme. Non esistevano rituali elaborati per l’inizziazione del ragazzo alla virilità. Appena dimostrava di
essere pronto egli prendeva semplicemente il posto che gli competeva.
A quell’età, cominciava a corteggiare una ragazza, anche se non si sarebbe sposato prima di possedere qualche cavallo.
Arrivato all’età di quarant’anni egli non partecipava più alle scorrerie guerresche, ma entrava a far parte del consiglio degli anziani, il cui parere era richiesto ed ascoltato da tutti.
Gli indiani non mostravano facilmente le loro emozioni, ma la morte d’un valoroso guerriero dava luogo a dimostrazioni di pubblico cordoglio. I ragazzi indiani imparavano a cavalcare all’incirca quando incominciavano a camminare. Quando erano alquanto cresciuti, gli uomini della tribù, richiedevano il loro aiuto per domare i cavalli selvaggi catturati nelle praterie. La speranza dei giovani era d’arrivare a possedere molti cavalli, poiché l’agiatezza si valutava in numero di cavalli.
I Sioux tenevano in alto conto i cavalli, che chiamavano "SUNKA WAKAN" (cani misteriosi) e consideravano animali sacri.
Quando un guerriero moriva, le sue donne collocavano il cadavere sulla biforcazione di un albero o sopra un catafalco.
Intorno gemendo di dolore, vegliavano i parenti. Quanto al cavallo del guerriero, spesso veniva sacrificato, oppure gli si rasava la criniera in segno di lutto.
Per molti l’immagine più comune degli indiani è rappresentata da un gruppo di bellicosi giovani a cavallo con i loro caschi di piume dalle lunghe bande fluttuanti.
Ma questa non è la realtà. Benché il casco di guerra fosse usato da diverse tribù, esso veniva messo solo in speciali cerimonie. Occorreva molto coraggio per metterlo in battaglia, perché chi lo portava era fatto segno di speciali attenzioni da parte del
nemico. Nei mesi freddi, molti guerrieri si coprivano con un caldo berretto di pelo munito di para orecchi. Più che al copricapo, l’indiano dedicava la sua attenzione alla chioma.
Come Sansone, egli credeva che la forza e la vita venisse dai capelli. In tempi remoti, gli indiani li lasciavano crescere e scendere sciolti; ma in tempi più recenti sia gli uomini che le donne incominciarono ad intrecciarli. L’acconciatura del capo poteva indicare la tribù di appartenenza di un indiano. I CROW avevano un’acconciatura alta.
I PAWNEE si rasavano il cranio, conservando solo una cresta di capelli dal centro della fronte alla nuca.
Gli OMAHA avevano un grosso ciuffo che dividevano in treccine ornate in penne.
Non tutti gli indiani scotennavano i nemici. Molti si preoccupavano assai più di conservare i propri capelli e arrivare a bruciare quelli che si tagliavano.
Il vestiario era minimo, specialmente durante la caccia e sovente si riduceva a una semplice brachetta. Talvolta vestivano camiciotti di daino o camicie di
cotone o di franella, acquistate dai bianchi. Nei mesi freddi indossavano pelli di bisonte.
Le donne portavano semplici tuniche e gambiere di stoffa o di daino lunghe sino al ginocchio. Mai sfoggiavano i loro costumi fantasiosi per dedicarsi ai lavori giornalieri.
D’estate i bambini sotto i dieci anni andavano completamente nudi.
L’abito indiano da cerimonia era molto decorativo. Camicie e gambiere non erano forse tanto importanti quanto l’acconcia-tura dei capelli, ma le casacche di guerra erano particolarmente elaborate e ricche di decorazioni suggerite dai sogni, che si riteneva proteggessero dai pericoli. Poteva trattarsi di semplici strisce orizzontali, ma più spesso il disegno era fantasioso e tramato con aculei di porcospino o perline colorate. Al collo e alle maniche si appendevano pelli di ermellino. Le donne decoravano i loro vestiti da cerimonia con denti di alce, tenuti in gran pregio sia dai CROW sia dai PIEDI NERI.
Sullo stesso vestito di uno stesso animale venivano applicati solo due denti, e poiché c’erano vestiti che ne sfoggiavano fino a trecento se ne deduce che soltanto la moglie di un provetto cacciatore poteva averne a sua disposizione. Le donne meno fortunate dovevano ripiegare sugli aculei di porcospino le perline, se non volevano servirsi di imitazioni in osso.
Quando gli scambi con i bianchi divennero comuni, molti costumi femminili vennero decorati con scampoli di franella rossa, importati in genere dall’Inghil-terra. Come calzatura, gli indiani per secoli avevano portato il semplice pezzo di pelle ravvolto al piede che viene detto "mocassino". Normalmente i mocassini non erano decorati, salvo quelli da mettere con gli abiti da cerimonia. Per i mesi freddi si utilizzava la pelliccia invernale del bisonte, con il pelo rivolto all’interno. Come si è detto l’antico mocassino era costituito da un solo pezzo di pelle avvolto al piede e allacciato alla caviglia; ma quando gli indiani videro le scarpe a suola dura dei bianchi cominciarono a farsi mocassini di due pezzi, costituiti, cioè, da una tomaia morbida cucita ad una suola di cuoio duro.
Acconciatura: I capelli avevano, per gli uomini indiani, un significato simile ai genitali, motivi
per cui davano grande importanza alle acconciature, che si presentavano diverse da regione a regione.
I Pawnee si rasavano completamente, lasciando solo in mezzo al cranio una cresta di capelli lunghi (o ciuffo di capelli lunghi = ciocca dello scalpo), sulla
quale spalmavano tanto grasso da farle assumere l’aspetto di un lungo e rigido corno. Molte tribù orientali presentavano acconciature simili. I Dakota avevano una scriminatura centrale e raccoglievano i capelli a treccia,
ornandoli con nastri di stoffa o di pelle.
Le tribù nordoccidentali come Nez Percé portavano i capelli lunghi e sciolti senza scriminatura. Nel sud-ovest molti indiani portavano i capelli corti sulla fronte e la coda di cavallo.
Le donne Hopi portavano i capelli raccolti a crocchia su di un orecchio, a rappresentare il fiore di "squash" (simbolo di illibatezza), fino al matrimonio. Una volta maritate raccoglievano i capelli in tante trecce. Per lavarsi i capelli facevano uso del sapone estratto dalla radice di yucca. (= Copricapo a cuffia) ornamento del capo costituito da penne in uso presso indiani di molte tribù, originariamente portato dalle tribù dei Sioux e più tardi adottato da altri indiani. Il Bonnet era formato da una calotta priva di falde di pelle morbida, sulla quale era applicato un nastro dal quale partivano le penne d’aquila, che potevano essere d’ala, di coda o anche pettorali. Qualche volta con il Bonnet si portava il cosiddetto "trailor", cioè due strascichi laterali di penne che continuavano quasi fino a toccare terra.
Borsa degli Amuleti: oggetti ricchi di forze magiche (pipe, mummie di uccelli) che ogni individuo portava con sé in una borsa di cuoio come protezione e aiuto in guerra e a caccia.
Breechcloth: (approssimativa-mente: grembiale da portarsi sui fianchi), anche: Brecch-clout, pezzo di stoffa lungo e stretto (anche di pelle morbida di vitello di bufalo), che veniva passato fra le gambe e ripiegato davanti e dietro intorno alla cintura natura, cosicché da essa, così nascosta, pendevano i due capi della stoffa. Venivano portati da soli o con i Leggings.
Di Elena Aldrighetti
(Articolo tratto dal giornale “La Padania” del 09/12/99)
Angelo Palego, studioso di Trecate, racconta le sue spedizioni sull’Ararat
Un suo nuovo libro raccoglie le avventure di una ricerca mistica
Dice di aver finalmente trovato l’Arca di Noè, quella che fu costruita, come
dice la Bibbia, dal patriarca su ordine di Dio in persona per salvare gli uomini
e le specie animali dal Diluvio Universale. Era lunga ben 300 cubiti (133
metri), larga 50 (23 metri) e alta 30 (13 metri). In una parola, immensa. Angelo
Palego, marchigiano d’origine ma da anni abitante a Trecate - città in provincia
di Novara - non ha dubbi: sul monte Ararat, a oltre 4000 metri di quota, si
nasconde, sotto una spessa coltre di ghiaccio, quello che rimane della mitica
imbarcazione, che - secondo la cronologia più accettata - lì si sarebbe arenata
il 2 aprile del 2369 a.C. Da sempre studia con filologica precisione i testi
della Bibbia (e del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che è Testimone
di Geova). E racconta con passione la sua incredibile avventura in un libro
appena uscito, intitolato "Come ho trovato l’Arca di Noè" (Edizioni
Mediterranee, Roma, lire 25 mila). Un’avventura non sempre semplice, dato che
durante i suoi tredici viaggi di studio il ricercatore è stato addirittura
rapito dai guerriglieri curdi. "Mi sono sempre interessato al problema dell’Arca
- ha spiegato Palego -, e non sono certo stato l’unico. Molti altri, prima di
me, hanno provato a trovarla, e qualcuno c’è anche riuscito. Ad
esempio nel ’43, quando un certo Ed Davis, militare americano in servizio in
Iran, dopo aver sentito da un curdo che suo zio sapeva dove si trovava l'Arca,
dopo sei giorni di interminabile marcia fu condotto sul posto e la vide, ma in
seguito non fu più capace di indicare il luogo esatto del ritrovamento. La
storia dell’Arca e dei suoi spostamenti dopo il Diluvio, del resto, non si può
certo dire che non sia stata travagliata. Se ancora nel Medioevo, infatti, chi
passava nel Caucaso (uno a caso, Marco Polo, che ne parla ne "Il Milione")
riusciva a vederla, nel secolo scorso improvvisamente scomparve. Il 2 luglio
1840, infatti, accadde un fatto straordinario. Dopo millenni di infiltrazioni
d’acqua e di pressione dovuta ai ghiacci, un boato scosse il monte Ararat, che
esplose uccidendo
gli abitanti del vicino villaggio di Ahora e provocò la formazione di una gola
profonda 260 metri e lunga 3 chilometri. "L’Arca - spiega Palego - subì un danno
enorme e si spezzò in due tronconi: uno, lungo 163 metri e largo 26, scese a
4300 metri d’altezza. È quello che ho ritrovato dieci anni fa, l’11 luglio del
’89. Da questo troncone si è però staccato un pezzo staccò il piano di base, un
tavolato lungo 100 metri e largo 26, che
si è stabilito a quota 4065 metri e fu scoperto nel 1955 dal francese Fernand
Navarra. Successivamente, nel ’97, ho individuato un altro troncone di 55 metri,
che era scivolato a 4000 metri e si è rotto a sua volta in altre due parti,
rispettivamente di 30 e 25 metri, che riposano l’una accanto all’altra". Durante
le sue spedizioni, Palego ha scattato molte foto e si è avvalso dell’aiuto del
satellite "Lancer", che aveva
prodotto un’immagine della zona ripresa da 84 Km d’altezza. Ma il suo punto di
partenza principale restava comunque la Bibbia. "Il 15 agosto - racconta - sono
partito per la nona spedizione sul monte Ararat. Tre giorni dopo, sono stato
catturato dai guerriglieri Curdi. Ma per fortuna sono stato capace di convincere
il loro comandante a lasciarci proseguire nella spedizione. Così ho potuto
fotografare la gola di Ahora dall’alto, con l’ultimo rullino che avevo. Ma
quando ho sviluppato le foto, non ho visto nessun frammento di Arca. Sembrava un
fallimento". Invece, il colpo di genio: "Ho chiesto ad un amico di sviluppare le
stesse foto con un formato maggiore, ed ecco che, come per magia, il pezzo
d’Arca che cercavo è comparso sullo stampato. Avevo trovato finalmente quello
che cercavo, e
la prova che quello che dice la Bibbia è tutto vero". Un mistero, dunque, che
sembra finalmente risolto. Molti, infatti, da ogni parte del mondo hanno scritto
a Palego per congratularsi per la sua impresa, e grande è
stato l’eco sulla stampa di tutto il pianeta. Ma non sono mancate neppure,
naturalmente, le polemiche. Tuttavia, il ricercatore è certo della sua scoperta,
e anzi rincara la dose. "Sono sicuro che il troncone che ho trovato sia la parte
dell’Arca dove si erano rintanati Noè e la sua famiglia. Del resto, la Bibbia è
chiara. Dice che l’Arca aveva un’unica finestra, attraverso la quale era
possibile vedere l’esterno e dalla quale fu mandata in avanscoperta la colomba
che tornò con il ramoscello d’olivo. Ora, siccome la Bibbia dice che quando
l’Arca si fermò Noè riusciva a vedere la cima di due monti (ovvero il Grande
Ararat, alto 5165 metri, e il Piccolo Ararat, alto 3925 metri), ed essendo
l’imbarcazione arenata a 4300 metri di quota, è chiaro che l'Arca doveva per
forza essere in asse con entrambe le montagne. Quando si è spezzata, il troncone
con la finestra è scivolato nella gola, e quindi è quello che io ho ritrovato
dopo anni di ricerche". I risultati delle spedizioni di Palego sono stati
raccolti in numerosi libri e in due siti internet, visitabili in italiano oppure
in inglese (www.prismanet.com/ark.noah e www. r-j.it /noahark). Numerose foto
testimoniano la presenza dei reperti. E da quello che si legge, sembra proprio
che uno dei misteri più affascinanti dell’archeologia di tutti i tempi sia stato
finalmente risolto.
HOBBY E TEMPO LIBERO
Merda Celtica - Scherzo del cazzo
Di "G"
Quelli che appaiono qui sono alcuni “spruzzi” autobiografici tratti dai primi due libri del “G”, noto conduttore radiofonico toscano.
Di “G”
Da “IL SONDAZZO”.
Merda Celtica
Tra le innumerevoli cacate di tutta una vita la più bella l’ho fatta in Francia. Precisamente in Bretagna, a Carnac.
Mi ero svegliato presto quella mattina, dopo una notte passata a dormire in macchina per mancanza di posti in albergo. Arrivato a buio fatto, non mi ero reso conto di essere capitato proprio nel bel mezzo della zona dei menhir. La visione che mi si aprì al risveglio oltre i cespugli riuscì a farmi aprire anche il culo, dall’emozione.
Centinaia di massi ritti in lunghi filari paralleli mi guardavano con aria interrogativa e come in lente processioni di pietra sembravano venire a prendermi.
Funzionò meglio del Guttalax. Mi rituffai nei cespugli e cacai… cacai… cacai!!! Mai sensazione mi fu più gradita. L’ultimo stronzetto me lo strappò dal retto la consapevolezza che quei “cosi” erano stati piantati in terra prima che venissero costruite le piramidi d’Egitto.
Mi ripulii con larghe, porose foglie reperite lì intorno e detti uno sguardo al prodotto della mia stupefazione.
Bella, era proprio bella, così acciambellata a mo’ di serpente, marrone e odorosa. A parte quest’ultimo particolare, somigliava a una di quelle merde finte che si comprano a Carnevale per metterle sulle sedie dei professori di Religione, in alternativa al solito cuscinetto petomane.
Tornai di corsa all’automobile dove chi era con me se la dormiva ancora beatamente, agguantai la reflex e tornai dalla mia preziosa scultura organica. Click! La immortalai come merda mai lo fu, e poi mi buttai a capofitto in mezzo a quelle pietre, solo, soave come una piuma, tornato bambino nelle sensazioni.
Non ricordo di essermi mai sentito così leggero, quasi volavo. Gli uccellini del mattino, dalla sommità dei pietroni, mi guardavano come fossi stato uno di loro. E in quel momento lo ero. Mi mancava solo la parola, anzi, il cinguettìo…
Adesso, qui, lontano da quei luoghi di meraviglia infinita, non mi restano che le immagini (non solo mentali) dei giorni passati tra dolmen, cromlech e menhir.
Di tanto in tanto, per ravvivare il grigio stitico delle noiose sere d’inverno, ritiro fuori la diapositiva della mia merda celtica, la proietto e la guardo per ore tentando di penetrare i misteri della storia del mondo.
A volte mi sembra di riuscirci, arrivo a un passo dalla soluzione… ecco, ci sono… ma poi vengo inesorabilmente
assalito da un dubbio atroce che mi dilania orrendamente gli intestini: e se fosse tutta una grande stronzata!
Scherzo del cazzo
C’era una ragazzina che mi piaceva da morire, di cui insomma ero cotto fino all’osso. Tutti a scuola se n’erano accorti, anche perché lei era la più carina e corteggiata, e uno scorfanetto timido come me non poteva certo ambire ai suoi favori: c’erano ben altri pretendenti. Ero dato 100 a 1. Per questo durante una festicciola in casa di non ricordo chi i crudeli compagni vollero giustamente punirmi per le mie assurde velleità amorose.
Prima uno mi si avvicinò con fare complice dicendomi a voce bassa: “Guarda che l’Angela ti sta puntando da matti stasera”. Poi una bruttina bitorzoluta, ritenuta l’amica più intima della bella dei miei desideri, a sua volta mi confidò: “Devo dirti una cosa da parte di Angela. Tu le piaci. Vorrebbe mettersi con te”.
Nel frattempo gli altri pezzetti di merda si davano un gran daffare nel versarmi liquori di un sacco di tipi diversi. “Dai, questo ti mette coraggio!”, “Su, bevi, bisogna festeggiare”. E così via.
Io già avevo una gran confusione in testa per quanto mi era stato “segretamente” rivelato. Con quel cocktail nella mente e nel sangue vedevo sempre più girare tutto e tutti intorno a me, in una sarabanda indecorosa ma tutto sommato etilicamente piacevole. Dovevo avere un’e-spressione molto più idiota del solito.
Fui spinto, del tutto ubriaco, verde in viso e immagino quanto ridicolo, di fronte alla splendida Angela, l’angelo dei miei sogni.
Mi incitavano a parlare, a dichiararle il mio amore. Io non sapevo a quale delle quattro Angele che vedevo dovevo rivolgermi. Ne scelsi una a caso e… le vomitai tutto il mio stomaco addosso prima di cadere a terra completamente annientato nel morale e nel fisico.
Feci appena caso alle sgangherate risate dei miei feroci aguzzini a cui ancor oggi voglio esprimere tutti i miei complimenti per la loro grande bravura, nonché la mia enorme riconoscenza. Questo forse vi sembrerà eccessivo, ma non dopo aver conosciuto il seguito della storia.
La dolce Angela era l’unica all’oscuro del terribile scherzo (oltre a me, ovviamente), ma i grulli che l’avevano organizzato contavano certo di farle così una gradita sorpresa, in omaggio alla sua evidente e superiore bellezza. Io ero l’agnello sacrificato alla dea. Ma a volte gli agnelli si vendicano: la dea non gradì, e furente lanciò i suoi strali su quei meschini, rimproverandoli aspramente per averla usata come esca. Insomma, la bella s’incazzò di brutto!
A proposito: fortunatamente per me e per lei l’abbondante rimessa fisiologica l’avevo scaricata su una delle tre Angele virtuali. In quanto a quella vera, la bella della scuola, la ragazza da tutti amata e desiderata, il sogno diurno e notturno di ogni naccherino scolastico… indovinate con chi si mise, chi scelse fra tanti, a chi accordò i suoi divini favori, con chi scelse di fornicucchiare anzichennò…
Bè, l’avete già capito, vero? Proprio con la povera, stupida “vittima” della situazione, l’ingenuo rospetto ubriaco, che si cuccò la sua ambìta e fresca passerina lasciando tutti gli altri con un palmo di… cazzo (in mano).
Ero andato in culo a quegli stronzi proprio grazie al loro scherzo, che aveva sbloccato una situazione come io mai avrei potuto o saputo fare.
Grazie ancora, bischeracci. Davvero uno scherzo del cazzo…
Ma ve l’ho fatto io!
INFORMATICA
Messaggini sui telefonini finalmente anche noi possiamo
Di Alessio Lenzi
Quante volte ci è capitato di ricevere sul telefonino un breve messaggio di
testo e non abbiamo trovato chi ce lo leggesse?
Da oggi, finalmente, anche per noi non vedenti questa frontiera è in parte
superata. Grazie al gestore di telefonia mobile TIM (Telecom Italia Mobile)
un’altra barriera è caduta fra noi e la comunicazione solo scritta che
oggigiorno va tanto di moda. Purtroppo, come avrete tutti notato, al giorno
d’oggi, la parola sta sempre di più diventando quasi una eccezione nei discorsi
e nei modi di spiegare le cose, lasciando fare molto alle immagini o, quando va
bene, alle cose scritte.
E’ infatti molto di moda, specialmente fra i giovani, comunicare attraverso il
telefono cellulare servendosi di messaggi di breve lunghezza che, se per chi
vede possono essere molto immediati e sicuramente di effetto, per noi che non
possiamo avere diretta interazione con il display di un telefonino erano, fino a
poco tempo fa, più un impiccio che una vera e propria comodità. Adesso, come
anticipato all’inizio di questo articolo, le cose stanno mettendosi un po’ al
meglio grazie ad un servizio che ci permette, attraverso un dispositivo di
sintesi vocale, di leggere questi messaggi che vengono inviati come testo al
telefonino. Purtroppo per il momento il servizio viene svolto solo da un gestore
mobile ma non si esclude, con il passare del tempo, che la cosa possa estendersi
anche a tutti gli altri operatori di telefonia mobile presenti sul nostro
territorio.
Il servizio è molto semplice, quando il nostro telefonino opportunamente
attrezzato con una speciale scheda sim, riceve un messaggio di testo, uno
speciale dispositivo lo invia direttamente alla centrale telefonica che provvede
poi a trasformarlo in messaggio vocale pronto poi per essere ascoltato sempre
attraverso il cellulare. Che dire? Sicuramente per il momento è un buon inizio,
speriamo che in seguito la cosa possa prendere piede e svilupparsi anche in
altri ambiti.
Per come avvalersi del servizio, per i costi e le modalità tecniche di
attivazione allego qui sotto la circolare dell’Unione italiana Ciechi numero 154
che spiega dettagliatamente tutto quello che c’è da sapere su questo
interessantissimo servizio. Tale circolare, oltre che a poterla leggere
direttamente qui sotto, è reperibile sul sito internet dell’U.I.C.
all’indirizzo: http://www.uiciechi.it.
Con questo breve scritto spero di essere stato chiaro sulle finalità di questo
servizio e comunque vi consiglio di continuare da qui la lettura in quanto,
segue la sopracitata circolare che vi spiegherà davvero tutto sul servizio.
Dunque, vi dò l’appuntamento ad un prossimo numero per parlarvi di qualche altro
servizio che spero possa abbattere ancora di più le barriere sensoriali fra il
mondo dei non vedenti e quello degli altri individui.
Circolare U.I.C. n. 154/2001
- Prerequisiti -
Per accedere al servizio è necessario che l’utente sia già in possesso di una
SIM Card della TIM (Telecom Italia Mobile) e che questa sia già stata attivata.
Per acquistare ed attivare una scheda TIM, prepagata o con abbonamento, è
sufficiente recarsi presso un Centro TIM, o in un negozio "il telefonino". E'
inoltre necessario che il cellulare posseduto sia compatibile con queste
particolari SIM abilitate al servizio di SMS vocali.
Per l’elenco dei telefonini compatibili si veda l’allegato a); si avverte
comunque che l’elenco sarà aggiornato frequentemente e che per informazioni
sempre aggiornate si potrà contattare il Servizio clienti 119 della TIM o
visitare il nostro sito Internet.
Pertanto, gli utenti che non sono ancora in possesso di una scheda TIM già
attiva, non potranno ricevere la speciale SIM Card se non dopo aver provveduto
ad attivarne una.
- Come ottenere una SIM Card -
Per ottenere la speciale SIM Card è sufficiente recarsi presso
la Sede UIC territorialmente più vicina, portando con sé la vecchia SIM, il
codice fiscale e, per i non soci, il certificato attestante lo status di non
vedente od ipovedente. Se il non vedente è minorenne, e quindi non può risultare
intestatario di un’utenza telefonica, la SIM Card potrà essere utilizzata con
un’utenza telefonica di una persona del nucleo familiare: genitore o fratello.
In tal caso saranno necessari il documento di riconoscimento ed il codice
fiscale del familiare ai fini del-l’attivazione del servizio.
Un impiegato appositamente preparato provvederà ad installare la nuova scheda e
a contattare il 119 per il completamento delle operazioni di attivazione della
scheda stessa.
Inizialmente la TIM consegnerà all’Unione Italiana dei Ciechi 10.000 schede che
verranno distribuite fra le Sezioni, in rapporto al numero dei soci regolarmente
iscritti al 31/12/2000. Sarà premura di questa Presidenza sollecitare la
consegna di altre schede, soprattutto tenendo
conto delle richieste che perverranno dalle Sezioni, in modo da evitare attese
eccessive da parte degli aspiranti utenti del nuovo servizio.
- Suggerimenti prima della sostituzione della SIM -
La sostituzione è quel procedimento con il quale il numero telefonico
dell’utente viene associato alla SIM Card speciale. Tramite questa procedura,
del tutto gratuita, il cliente potrà così conservare lo stesso numero di
telefono, lo stesso credito (in caso di linea prepagata) e lo stesso profilo
tariffario, opzioni incluse.
Per semplicità, si definirà d’ora in avanti "vecchia SIM", quella che il non
vedente possiede al momento che ritira alla Sezione la SIM speciale; si definirà
"nuova SIM" quella speciale consegnata dalle Sezioni UIC.
Prima di procedere alla sostituzione, è consigliabile effettuare il salvataggio
di tutti i numeri telefonici registrati sulla vecchia scheda.
A tale proposito si ricorda che alcuni telefoni (ad esempio i Nokia) offrono la
possibilità di copiare con una semplice operazione tutti i numeri contenuti in
rubrica, dalla SIM al telefono e viceversa (per informazioni sulle operazioni di
copia, si faccia riferimento al manuale del telefonino che si intende
utilizzare). Sarebbe auspicabile, pertanto, che in ogni Sezione vi fosse un
telefonino con la funzione appena enunciata al fine di agevolare i soci. Ogni
operazione di sostituzione è gratuita, anche nel caso di un futuro furto, di
malfunzionamento o di smarrimento.
- La confezione della nuova scheda -
La SIM Card speciale abilitata al servizio di SMS vocali viene consegnata in una
piccola confezione delle dimensioni di due carte di credito sovrapposte. Aprendo
delicatamente l’in-volucro in cellophane, all’in-terno si trovano due schede di
forma rettangolare in materiale plastico.
Una delle due contiene la SIM Card, che è ben individuabile, anche al tatto, per
il fatto che si tratta di un piccolo rettangolino in metallo, con uno dei
quattro angoli smussato a 45 gradi.
Staccare delicatamente la parte metallica dal supporto in plastica, facendo
attenzione a non danneggiare la SIM Card.
La seconda Card contiene una serie di informazioni riguardanti
la stessa SIM; accedere a queste informazioni grattando dove indicato.
Dopo l’avvenuta sostituzione conservare il contenuto della confezione, eccetto
la SIM Card che, ovviamente, va inserita nel telefonino.
Si raccomanda di maneggiare le SIM Card con le mani pulite ed asciutte, per non
danneggiarle.
- Codice ICC-ID -
Nel retro di ogni SIM Card esiste una sequenza di numeri e lettere; si tratta
del numero seriale identificativo della scheda. Questo codice sarà necessario al
momento della sostituzione della SIM.
- Sostituzione della SIM -
Una volta in possesso della nuova SIM, dopo aver effettuato le operazioni
preliminari dette in precedenza, con la collaborazione dell’impiegato della
Sezione l’utente deve contattare il 119 da un telefono di rete fissa o da un
altro cellulare TIM per richiedere la sostituzione della propria SIM Card.
La procedura che si sta per descrivere sarà analoga qualora la
sostituzione debba effettuarsi in futuro per i casi di furto, smarrimento o
malfunzionamento. Si ricorda, comunque, che in caso di furto o smarrimento, è
necessario contattare subito il 119 per le procedure di blocco della linea,
senza le quali non sarà possibile sostituire la propria SIM. Quando si contatta
il 119 entra in funzione un sistema guidato di scelte. Seguendo la voce-guida,
selezionare il tasto "asterisco", comporre il numero del telefonino dell’utente
seguito da "cancelletto"; dopo che la fonia avrà ripetuto il numero composto,
confermarlo con il tasto "1" e attendere la risposta dell’operatore al quale
dovrà essere indicato il motivo della chiamata, e cioè l’intenzione di voler
procedere alla sostituzione della propria SIM con una abilitata per il servizio
di SMS vocali per i non vedenti.
Dopo aver richiesto il numero del telefonino, l’operatore incaricato procederà
ad una verifica dell’intestatario del numero della vecchia SIM, richiedendo i
dati anagrafici, il codice fiscale e ogni altra informazione che serva a meglio
identificare l’in-testatario dell’utenza telefonica.
Subito dopo l’operatore richiederà in successione prima il vecchio codice ICC-ID,
e poi il nuovo.
Si raccomanda di scandire a voce alta e lentamente il codice, al
fine di evitare spiacevoli inconvenienti.
Il buon esito dell’operazione sarà comunicato dall’operatore del 119.
Per qualche tempo, massimo 24 ore, il cliente potrebbe non avere linea; ciò è
necessario al sistema per effettuare tutte le procedure di disattivazione della
vecchia scheda ed attivazione della nuova.
Si precisa che la vecchia scheda non potrà in nessun caso essere utilizzata in
futuro.
Se dovessero sorgere degli inconvenienti durante la fase di sostituzione, sarà
lo stesso operatore del 119 a porvi rimedio.
- Inserimento della nuova SIM nel telefonino -
Dopo aver effettuato la sostituzione si potrà finalmente inserire la nuova SIM
nel telefonino dell’utente.
Grattando sull’apposito spazio della card si potrà individuare
il codice pin. Il codice, composto da 4 numeri, serve per accedere alla scheda.
Si ricorda che se non si conosce il codice pin, non sarà possibile accedere alla
nuova SIM Card. Si ricorda altresì che tre immissioni errate del codice pin
bloccano la SIM Card. Per le procedure di sblocco rivolgersi al 119.
Inserita la nuova SIM ed acceso il telefono, verrà richiesto il codice pin.
Inserirlo e dare conferma con l’apposito tasto.
A scanso di equivoci si chiarisce che, sebbene molti utenti abbiano disabilitato
la richiesta del codice pin sulla vecchia scheda, al momento dell’in-serimento
della nuova SIM il codice pin della nuova SIM verrà comunque richiesto.
Se l’immissione del codice pin è stata effettuata correttamente, il telefonino
inizia la ricerca della rete. Se compare un messaggio del tipo "registrazione
sim fallita", o uno simile, significa che il sistema centrale non ha ancora
effettuato il cambio linea.
In tal caso spegnere il telefonino e riprovare più tardi.
Se l’utente lo richiede, anche per una questione di praticità, la richiesta del
codice pin può essere disabilitata. L’operazione può essere compiuta anche se la
linea non è stata ancora riattivata. Per informazioni sulla procedura si può far
riferimento al manuale del telefonino del-l’utente. Una valida alternativa può
essere quella di inserire la SIM in un telefono che la persona incaricata della
sostituzione conosce ed effettuare l’ope-razione di disabilitazione del codice
pin da quel telefono.
Si ricorda che la disattivazione della richiesta del pin è un’in-formazione che,
una volta modificata, resterà sempre valida, anche quando la SIM venga inserita
in altro telefono.
- Funzionamento del servizio -
Non appena la linea è riattivata anche il servizio di SMS vocali dovrebbe
attivarsi. Per verificarne l’attivazione comporre il numero 49600 e seguire la
voce-guida. Se fra le opzioni previste vi è anche quella di invio, il servizio è
attivo; in caso contrario la voce guida informerà l’utente che non ci sono
messaggi e terminerà la comunicazione. Per forzare l’attivazione del servizio,
perciò, si suggerisce di inviare da un qualunque telefonino GSM un SMS di testo
all’utente; in questo modo il sistema riconoscerà la speciale SIM e consentirà
l’accesso al servizio di SMS vocali. L’SMS può essere anche inviato dallo tesso
telefonino dell’utente a se stesso.
- Ricezione degli SMS -
Il telefono continuerà a ricevere normalmente gli SMS, tanto è vero che si
continuerà ad udire il segnale acustico ogni qualvolta si riceverà un SMS, come
pure continuerà a comparire la bustina sul display.
Ed è a questo punto che entra in gioco l’apposito software della speciale SIM
Card. L’SMS ricevuto viene inoltrato automaticamente ad un sistema centralizzato
di lettura e cancellato dalla SIM. Dal sistema centralizzato, nel tempo medio di
10-30 secondi, partirà una chiamata. Il telefonino dell’utente squilla e,
rispondendo, si potrà udire un messaggio preregistrato, con il quale il servizio
informa della presenza di nuovi SMS vocali ed invita a chiamare il 49600.
Chiamando questo numero, gratuitamente, e seguendo le istruzioni della
voce-guida, si potranno così ascoltare gli SMS ricevuti tramite un sistema di
sintesi vocale. Sempre seguendo la voce guida si potrà rispondere al mittente
del messaggio con un breve messaggio in voce di massimo 15 secondi; analogamente
si potrà cancellare il messaggio ricevuto.
Nonostante i messaggi vengano cancellati dalla SIM il simbolo della bustina
rimane sul display. Questo fatto è del tutto normale ed è ascrivibile al
telefonino, che non è in grado di rilevare se sulla propria SIM Card vi siano o
meno messaggi. La situazione
reale si ottiene, perciò, ogniqualvolta si spegne e si riaccende l’apparecchio.
Se riaccendendo l’apparecchio il simbolo della bustina scompare, significa che
tutti i messaggi ricevuti sono stati inoltrati; se la bustina persiste,
significa che sulla SIM sono rimasti degli SMS, oppure
ve ne sono alcuni non compatibili con il sistema: è il caso di messaggi con
immagine o altro tipo non di testo. I messaggi non di testo, infatti, non
vengono inoltrati al sistema e devono essere gestiti utilizzando le normali
funzioni del telefonino. Ci si riferisce ai messaggi flash, a quelli con cui si
inviano suonerie, loghi ed altro.
- Il refresh manuale -
Quando si ricevono contemporaneamente più SMS in sequenza, può accadere che
alcuni di essi non vengano inoltrati al sistema. Per ovviare a ciò è stata
prevista una funzione detta di "refresh manuale".
Con questa procedura l’utente forzerà l’inoltro degli SMS rimasti sulla SIM al
sistema centrale.
La procedura differisce a seconda del telefono; si sta provvedendo ad
approntare, perciò, il manuale, per ogni modello di telefono compatibile.
In linea generale, per effettuare il "refresh", entrare nell’area del menu
dedicata ai "Servizi TIM"; scegliere l’opzione "UIC"; premere OK, attendere
qualche secondo e poi ritornare al menu iniziale premendo il tasto necessario.
Se, nonostante il refresh, i messaggi restano sulla SIM Card, è necessario
intervenire manualmente sul telefono provvedendo alla loro lettura e
cancellazione.
- Invio di SMS -
Esistono due modalità di invio di messaggi: quella classica, mediante l’utilizzo
della tastiera del telefonino, e quella vocale.
Per l’invio tramite tastiera si faccia riferimento al manuale
del telefonino.
Per inviare uno short message vocale, chiamare il numero gratuito 49600 e,
seguendo la voce-guida, scegliere l’opzione di invio messaggio.
- Messaggi diretti ad altri utenti -
Se si sceglie di inviare i messaggi tramite tastiera, gli altri utenti, di
qualunque compagnia di telefonia mobile, riceveranno normalmente sul display del
loro telefonino il messaggio. Se si sceglie l’invio vocale, al destinatario
verrà inviato dal sistema centrale un SMS, avvertendolo della presenza di nuovi
SMS vocali, ed invitandolo a chiamare un numero. Se il destinatario è utente
TIM, il numero da chiamare per l’ascolto degli SMS vocali è sempre 49600; per
altri gestori il numero da comporre è 800 01 96 00. In entrambi i casi la
chiamata è gratuita.
- Funzioni speciali con gli SMS -
Con l’attivazione della nuova SIM Card è possibile utilizzare anche tutta una
serie di servizi che la TIM offre ai suoi clienti tramite gli SMS, e che
normalmente sono raggruppati in un menu chiamato "Servizi Tim". Nella SIM Card
abilitata al servizio di SMS vocali tutti questi servizi sono stati volutamente
esclusi, dal momento che, comunque, essi non sarebbero gestibili autonomamente
dall’u-tente non vedente. Ciò nonostante tramite gli SMS è possibile in maniera
semplice ed immediata utilizzare tutti i servizi TIM. Siccome, però, questi
servizi richiedono una particolare sintassi scritta, è possibile farne uso
soltanto se si conoscono le modalità di scrittura degli SMS tramite tastiera.
I servizi SMS sono in continuo aggiornamento; si sta approntando un manuale con
tutti i servizi Tim e le relative sintassi. Per informazioni in tal senso
consultare il sito internet della Tim www.tim.it, oppure rivolgersi alla Sede
Centrale.
- Quanto costa -
Il servizio SMS vocali TIM è gratuito. Gli SMS inviati saranno tassati, come
sempre, in base al profilo tariffario del cliente.
Generalmente ogni SMS inviato con un’utenza Tim costa 250 Lire più Iva: Lire
300, pari ad Euro 0,15.
L’ascolto del messaggio è gratuito per tutti, sia chiamando il
49600 che il numero verde 800 01 96 00.
- Informazioni aggiuntive. Raccomandazioni -
Si raccomanda alle Sedi periferiche di dare massima diffusione al servizio,
utilizzando tutti i mezzi di comunicazione a loro disposizione.
Sarà compito di questa Sede Centrale provvedere quanto prima all’invio di altro
materiale di supporto, tra cui manuali di funzionamento dei servizi Tim,
aggiornamento dell’elenco dei telefoni compatibili e delle istruzioni per il
refresh manuale.
Ulteriori comunicazioni in merito verranno inviate tempestivamente da questa
Sede.
Per ulteriori informazioni si possono utilizzare i canali convenzionali:
telefono, e-mail, sito internet.
Cordiali saluti.
Il Presidente Nazionale
prof. Tommaso Daniele
All. 1
Allegato A
Terminali a listino TIM consigliati
Costruttore/Modello
Siemens
C35, S35, C25, S25, S10
Nokia
3330, 3310, 6210, 6150, 8210, 3210
Motorola
P7389, CD930, T2288,
260GPRS, T250GPRS,
T180, L7089, V51
Samsung
A110, A300
Bosch
909
Terminali a listino TIM sconsigliati
Costruttore/Modello
Ericsson
T28s, R320s
Motorola
V66GPRS
Siemens
S45GPRS, A40
Sony
CMD-Z5, CMD-MZ5
Nokia
7110
Philips
Ozeo
Telit
GM832, GM810, GM940
GM910
Bosch
509
Terminali a listino TIM non compatibili con il servizio SMS vocali UIC
Costruttore/Modello
Ericsson
T20s, T18s
Alcatel
One Touch 303, One Touch 701
One Touch Club
Motorola
TCD920, V3690
Philips
Genie
Samsung
R200, 2400, 2200, SGH 2100
A100, N100
Nec
DB2000, DB4000
Di Alessandro Rossetti
In questi ultimi mesi, in tv, oppure su riviste
specializzate in prodotti informatici, sentiamo sempre più pronunciare il nome
ADSL.
I vari gestori di telefonia si stanno affannando per attivare numerose offerte
concorrenziali e per catturare, se possiamo dire così, il maggior numero di
utenti internet.
Ma cerchiamo di capirne il perché e soprattutto che cos’è questa ADSL.
L’ADSL è una nuovissima tecnologia in grado di trasformare le normali linee
telefoniche analogiche in connessioni digitali ad altissima velocità per la
connessione a Internet: questo si traduce nella possibilità di navigare in
Internet, utilizzando le normali linee telefoniche, a velocità nettamente
superiori a quelle delle normali connessioni dial-up.
Le connessioni dial up sono in pratica le normali connessioni fatte con Windows
tramite l’ac-cesso remoto, ad un numero telefonico standard.
La velocità massima possibile con questo tipo di connessioni, è di 56 kb/secondo
(velocità nominale, visto che in realtà la velocità effettiva a cui ci si può
collegare in genere non supera i 48 k al secondo).
Non solo: spesso i siti internet sono molto affollati e di conseguenza, la resa
della connessione può scendere anche a livelli molto più bassi, tal volta
impossibili da sopportare.
Quante volte vi è capitato di dover scaricare un programma dalle dimensioni
piuttosto elevate (lo stesso Jaws, che molti di noi utilizzano per leggere lo
schermo del pc è di circa 20 MB in media, e i suoi tempi di scaricamento degli
aggiornamenti vanno da 45 minuti a 2 ore nei casi meno critici).
Qualcosa si era potuto guadagnare con la tecnologia ISDN, nella quale venivano
impiegate 2 linee telefoniche digitali, una impiegata per il collegamento
internet, l’altra per ricevere fax o normali telefonate.
In questo caso però per poter acquistare maggiore ampiezza di banda in rete
(raggiungendo una velocità nominale di 128 kb/secondo di download), dovevano
essere impiegati tutti e due i canali di trasmissione, cioè le 2 linee
telefoniche contemporaneamente.
Il risultato era che spesso molti provider non consentivano questa possibilità e
comunque, il costo della connessione veniva praticamente raddoppiato, in quanto
le telefonate pagate erano 2 e non una sola.
Nei casi di utilizzo di una sola linea, la velocità acquistata era di poco
superiore a quella di un normale modem analogico.
A svantaggio del consumatore, poi, veniva il canone di abbonamento al servizio
ISDN, decisamente più elevato, poiché oltre al pagamento delle 2 linee
telefoniche, era compreso anche il noleggio della scatola di smistamento delle
telefonate (la cosiddetta borchia).
L’ADSL permette di ricevere e trasmettere dati, da e verso Internet ad
elevatissime velocità, fino a 328 kb/secondo per gli utenti domestici (velocità
nominale) in scaricamento e 64 kb/secondo in upload (cioè in trasferimento dal
nostro pc ad un altro: esempio il server dove sono ospitate le nostre pagine
web).
Questo riduce notevolmente i tempi necessari per scaricare la propria posta
elettronica, per aprire le pagine Web oppure per scaricare file di grandi
dimensioni. L’ADSL, essendo una tecnologia asimmetrica, è la soluzione ideale
per tutte le applicazioni multimediali che richiedono soprattutto una grande
velocità in fase di ricezione, proprio come Internet e i contenuti multimediali
(audio, video e animazioni complesse).
Come funziona?
Per poterla utilizzare occorre quindi una normale linea telefonica, un modem
ADSL e un computer compatibile con il modem ADSL.
Quindi, la prima cosa da fare, è sostituire il nostro modem. Attualmente in
commercio si trovano modem adsl a prezzi che vanno dalle 350.000 Lire in sù
(almeno su internet). Conviene quindi girare un po’ ed informarsi sulle varie
offerte dei gestori telefonici, che talvolta comprendono anche un noleggio modem
(magari temporaneo) oppure l’utilizo in Comodato d’uso.
Il modem ADSL, consente di ricevere e trasmettere i dati in formato digitale
sfruttando al massimo l’ampiezza di banda disponibile sui tradizionali “doppini”
(cavetti di rame arrotolati su se stessi) delle normali linee telefoniche.
Infatti il normale traffico voce utilizza solo una minima parte della banda
disponibile.
Grazie all’ADSL, la linea telefonica viene divisa in tre canali di frequenze
distinte: uno dedicato alla ricezione dei dati da Internet (downstream), uno
dedicato all’invio dei dati verso Internet (upstream) ed il terzo riservato al
trasporto del tradizionale traffico “voce”.
La separazione tra voce e dati si ottiene grazie a speciali filtri. Per questo
motivo, con l’ADSL è possibile utilizzare il telefono o ricevere fax mentre si è
collegati ad Internet.
I filtri, sono spesso compresi nel canone di abbonamento adsl come noleggio,
oppure richiedono una spesa supplementare. Anche qui, quindi, è bene valutare le
varie proposte commerciali del gestore a cui ci si vuole affidare.
A casa del cliente...
Per mantenere il segnale digitale del computer separato da quello “voce” del
telefono possono essere utilizzate due soluzioni, una definita “a filtri
multipli o distribuiti”, l’altra detta “a filtro unico o centralizzato”. La
soluzione “a filtri multipli” è la più semplice e si applica al tradizionale
impianto telefonico analogico, presente in oltre il 90% delle case. In questo
caso basta mettere un filtro su ogni presa della linea telefonica a cui sono
collegati telefoni, fax, cordless o modem tradizionali. In questo caso, il modem
ADSL può essere collegato a qualunque filtro presente sulle prese telefoniche.
La soluzione “a filtro unico”, al contrario, è necessaria nel caso in cui sulla
linea telefonica analogica vi siano centralini, intercomunicanti, sistemi di
teleallarme, sistemi di tele soccorso o altri prodotti e servizi che utilizzano
l’impianto telefonico. In questo caso è necessario installare un filtro unico
chiamato “POTS Splitter” sulla presa telefonica principale della linea a cui va
collegato direttamente il modem ADSL.
Una volta effettuate queste modifiche, la tariffazione avverrà secondo quanto
deciso dall’of-ferta commerciale del gestore. Di solito, viene garantito un
volume di traffico mensile gratuito da non superare, compreso quindi nel canone
di abbonamento adsl. Questo, in sintesi, è il funzionamento di questa nuova
tecnologia.
Per le offerte commerciali, chiedete al vostro operatore telefonico di rete
fissa. Il canone medio mensile si aggira intorno alle 70/80.000 Lire iva
esclusa. In fine da non sottovalutare un rischio molto concreto: la possibilità
di essere più facile preda di pirati informatici e di virus. Infatti, il nostro
computer in pratica può rimanere collegato 24 ore su 24 alla rete. In questo
modo, chiunque potrebbe raggiungerci, grazie anche a qualche programma spia,
quindi farci del male senza che noi ce ne accorgiamo.
Nel caso del collegamento attraverso la linea analogica, essendo molto più basso
il tempo passato in rete a causa dei costi di connessione, e grazie agli
indirizzi dinamici, è statisticamente più difficile che un pirata informatico
possa introdursi nel nostro sistema.
A conferma di questo, ecco quanto riporta un sito internet dedicato alla
materia:
“Un altro aspetto da non sottovalutare, se si vuole decidere per l’installazione
di una linea ADSL, è la sicurezza. Viene infatti fortemente sconsigliata
L’installazione dell’ADSL senza un adeguato firewall che garantisca il
filtraggio dei dati in entrata, in modo da scongiurare la creazione di backdoor
e l’intrusione di potenziali virus dannosi.”
Insomma, in poche parole, l’Adsl, se non si prendono determinate precauzioni,
può rivelarsi un danno per l’utente, piuttosto che un vantaggio.
I Firewal, come si accenna nella citazione fatta sopra, possono aiutarci a
prevenire questi pericoli. Ma cosa sono? Semplice, sono dei programmi che
avvisano l’utente di eventuali accessi non autorizzati e li bloccano. Chi ad
esempio scarica files.mp3 da Winmx o da programmi simili ne sa qualcosa, visto
che in questo caso i collegamenti avvengono sì attraverso la rete, ma
direttamente da un computer all’altro, senza passare per i providers (un po’
come accadeva quando ci collegavamo alle prime bbs oppure telefonavamo al modem
di un nostro amico per scambiare qualcosa).
Insomma, è bene premunirsi, e soprattutto, consiglio pratico, è bene non
lasciare mai attiva la connessione quando non siamo in casa oppure pensando che
se ora non la usiamo, magari la useremo fra 10 minuti, mez-z’ora ecc.
Prendendo queste piccole precauzioni, sicuramente otterremo vantaggi e potremo
stare, almeno per il momento, un po’ più tranquilli.
ISTRUZIONE
Convegno sull'integrazione dei non vedenti nell'Università
Di Alessandro Tanini
Il giorno 17 giugno, all’hotel Ergife di Roma, si è tenuto un convegno concernente
l’integrazione dei non vedenti nell’Università, a cui hanno partecipato 2 studenti privi di vista per ogni regione. Erano inoltre presenti anche alcuni rappresentanti dell’Unione italiana ciechi come il Presidente nazionale Tommaso Daniele, il vicepresidente Enzo Tioli e Vito Romano ed alcuni docenti universitari che si occupano dei problemi degli studenti disabili come il Professor Francesco Gatto, il cui intervento è risultato uno dei più significativi.
Egli ha infatti sottolineato l’importanza del fatto che non basta fornire ad esempio ausili informatici allo studente disabile per integrarlo nell’Università, ma anche molti docenti devono porsi in altri modi nei suoi confronti: a molti studenti minorati della vista ad esempio, può spesso capitare che il docente dia loro altri programmi da portare all’esame oppure spesso si sente dire che il cieco, grazie al cosiddetto “sesto senso”, riesce a compensare la cecità. Certo, prima di tutto dev’essere proprio lo studente disabile a non piangersi mai addosso, spiegando al docente quali sono i suoi limiti e, a quel punto, il docente, anziché fare il pietista, deve venire incontro alle difficoltà dello studente cercando di risolverle insieme a lui.
Molto significativi, sono stati anche gli interventi degli studenti, i quali hanno descritto la loro esperienza universitaria. Da un lato, i problemi che sono emersi sono stati un po’ quelli di sempre (mancanza di postazioni informatiche in molte facoltà, strutture inadeguate e così via), ma, allo stesso tempo, sono venute fuori anche proposte interessanti come l’istituzione di un
portale Internet, dove ogni studente scrive in generale della sua esperienza in campo universitario per far sì che tutti coloro che, dopo il liceo, volessero intraprendere il cammino universitario, possano tramite questo portale, acquisire informazioni su come affrontare meglio le varie problematiche.
Tali problematiche sono state ridiscusse anche in un incontro tenutosi nella sezione provinciale dell’Unione italiana ciechi di Firenze a cui hanno partecipato 3 studenti: Gabriele Fabbri, studente in Ingegneria delle telecomunicazioni, Valentina Baldazzi, studentessa in Scienze della formazione ed Alessandro Tanini, ossia chi vi scrive, studente in Lingue e letterature straniere e organizzatore dell’incontro. Tanini ha aperto l’incontro riassumendo quanto trattato nel convegno di Roma ed ha poi lasciato la parola agli altri 2 studenti che hanno parlato della loro esperienza in campo universitario. Dalla discussione è emerso che, tutto sommato, Gabriele e Valentina si sono ben integrati nell’Università, anche se non senza qualche problema: soprattutto Valentina, che ha finito il secondo anno, ha sottolineato le incomprensioni venute alla luce con una sua docente, mentre Gabriele, che ormai si sta avviando verso la fine, ha messo in risalto le difficoltà che ha dovuto affrontare all’inizio riguardanti l’acquisto di ausili informatici, anche se, in seguito, la sua facoltà si è dimostrata disponibile nel fornirgli il videoingranditore ed alcune persone che lo assistevano durante lo svolgimento dei corsi e nella preparazione degli esami.
L’incontro con Gabriele e Valentina ha pertanto confermato le esigenze e le problematiche emerse anche al convegno di Roma e saranno quindi punti fondamentali su cui lavorare in futuro.
MUSICA
Quando avere un handicap non vuole dire disabilità
Incredibile ma vero, i ciechi
possono giocare a golf...
Di Vainer Broccoli
Nelle giornate di marteidì, mercoledì e giovedì (rispettivamente 25, 26 e 27
settembre) a Castel San Pietro Terme, ridente cittadina a pochi km da Bologna,
si è svolto un torneo internazionale di golf
per disabili.
Anche in Italia in effetti, si sta diffondendo la versione “han-dy” di uno sport
che è molto praticato in tutta Europa; a Castel San Pietro, quindi, presso il
Golf Club Le fonti, unico circolo in Italia ad essere gestito da un comune, si
sono radunati rappresentanti di tutte le città d’Europa.
Tra loro, c’era anche Angelo Cairoli, unico non vedente assoluto in Italia, a
praticare questo sport.
Angelo, 44 anni, gioca da 10, e vive questo sport con una passione smodata:
“...Mi piace il rumore della pallina che, quando viene colpita bene, vola
letteralmente via! Ogni colpo ben
riuscito è uno stimolo per andare, col colpo dopo, ancora più lontano!...".
Durante gli anni di pratica di questo sport, Angelo, è riuscito anche a
“prendere l’handycap” che, nel mondo del Golf, non è assolutamente una cosa
brutta, anzi, vuole dire che il giocatore passa dallo stato di “neofita” a
quello di “classificato”; questo, per così dire, passaggio di livello,
ambitissimo dai giocatori, è avvenuto in gare ufficiali, gare che non
prevedevano particolari vantaggi per Angelo che, quindi, ha gareggiato alla pari
con il resto dei partecipanti.
Il non vedente, quindi, può cimentarsi in una attività agonistica, praticamente,
quasi alla pari di chi vede senza particolari escamotage, senza l’ausilio di
tecnologie create “ad hoc” “...E’ una questione di posizione, sensibilità ed
elasticità delle braccia e delle gambe” Spiega Angelo, “...Quando mi faccio
prendere dalla tensione della gara non azzecco un colpo!”.
Ci racconta ancora Angelo che ha iniziato a provare a colpire la pallina nel
giardino di casa, col tempo ha cominciato a sentire la necessità di andare
avanti, di imparare la tecnica; così è partita la ricerca a Milano, dove
risiede, di insegnanti, maestri che volessero iniziare con lui quest’avventura.
Ha, in questo modo, scoperto che negli Stati Uniti i ciechi giocano a golf da
quasi 20 anni, esistono gare ufficiali di categoria ecc...; il suo maestro
veniva già da esperienze simili negli States e lo ha iniziato a que-st’attività.
Da quel momento Angelo ha coltivato una vera passione sportiva che lo ha portato
a cercare sempre di Migliorarsi.
Dopo le chiacchiere siamo andati in campo pratica, dove i golfisti provano il
loro “swing”, ed Angelo ha dato una dimostrazione pratica di come un non vedente
può giocare:
“...Tutta una questione di elasticità, non c’entra la forza fisica! se ti
irrigidisci non c’è verso di fare un buon tiro…” Asserisce tra una pallina e
l’altra; si confronta, commenta, uno sportivo coi fiocchi!
Durante una partita, i partecipanti non sono mai meno di 3, chi gioca con lui
gli dà le coordinate per arrivare in buca, il gioco è fatto.
Durante la 3 giorni al Golf Club Le fonti si è vissuto un momento di grande
integrazione: I partecipanti al torneo per disabili si sono confrontati con i
soci del circolo, una gara per tutti, veramente per tutti, una dimostrazione
reale di quanto il golf possa diventare un’occasione per socializzare, per
abbattere quei muri di pietismo che tanto male fanno a chi li subisce.
“...Giocheremo assieme, magari molti di loro saranno anche migliori di noi!…”
Afferma la Dr.ssa Rita Lugaresi, direttrice del personale del Club Le Fonti, “...In
campo non ci sono differenze, bisogna arrivare prima del-l’avversario alla buca
18!...” Continua la direttrice che non nasconde la soddisfazione di poter
ospitare una manifestazione di questo genere, all’interno di una struttura
aperta da appena 2 anni.
Sicuramente il golf può dare molte soddisfazioni anche ai ciechi, un unico
problema: nessuno sapeva che si poteva fare! Come troppe volte succede, quello
che manca allo sviluppo di attività come questa è la divulgazione, manca il dare
a più gente possibile l’opportunità di provare uno sport legato a filo doppio
con la natura, uno sport non pericoloso e, cosa non da poco, che dà una grande
possibilità di integrazione e socializzazione.
RACCONTI E POESIA
Di Simona Convenga
Lo scirocco invernale soffiava di un respiro smorzato,
sul principio della primavera, dall’Illiria materna di memorie verso terra dei
Messapi, poco lontano dalle case e dai campi prossimi alla raccolta, le greggi
propizie ondeggiavano lente pazienti e serene nei pressi del tempio della bianca
figlia di Demetra.
Baste, la città delle case dorate ampie di luce e di fiori di ibisco attendeva
l’inizio e il compimento dei riti e delle preghiere perché la dea concedesse
alla città e alle donne la fertilità e la forza di essere presenti.
Di fretta e leggera Tahotorra lasciò la sua casa fresca di notte, per portare in
mezzo al volo dei petali le offerte votive al tempio.
“Bianca dea della luce, torna dalla tenebra, torna a tua madre, vieni al mio
recinto e accetta questi doni, bevono le tue pietre vino e latte e l’idromele
scorre attraverso le fessure fino al luogo dove tu ora sei. Sorgi, dea bianca,
torna eternamente come la luna cui è sacra la cagna gravida che ora sacrifico,
torna a nutrire la terra, torna mia signora Persefone”.
Dopo il rito della preparazione del cibo consacrato e la rottura delle pentole e
dei vasi intrisi di sangue e di latte, terminato il culto, Tahotorra si
allontanò dall’altare, fissando lo sguardo al quel lento nutrirsi degli dei
inferi, attendendo che Persefone bella si manifestasse nei raggi del sole più
caldi, nel vento orientale nato nella lontana Illiria da cui vennero, al tempo
degli dei e degli eroi, il padre di suo padre, la madre e la madre di sua madre.
Nel vento, le parse di udire il lungo latrato sommesso delle cagne di Argo,
sacre a Ecate, animali agili e lunari, fedeli e rassegnati, e loro le parlarono
di un tempo sconosciuto e lontano, della sua stessa terra che avrebbe sommerso
per secoli il tempio delle sue preghiere, del mare che avrebbe portato uomini
biondi e irsuti di guerra e di filosofia, un’altra lingua scandita e sonora
avrebbe aleggiato tra gli ulivi di Baste, vi sarebbero nate altre viti, altri
raccolti fecondi, altre greggi lente e belanti avrebbero calcato le zolle rosse,
altre statue e vasi e monete dal colore del sole e della luna, la terra avrebbe
ingoiato e nascosto come il latte filtrato nell’altare del tempio.
Così le parlavano le cagne di Ecate oscura, signora della luna vecchia, madre e
figlia della vergine e della sposa notturna. Così piangeva la cagna gravida
sacrificata col suo feto, che per mano della sacerdotessa Tahotorra fu ai suoi
figli culla, altare e bara.
Venticinque secoli dal quel giorno di primavera nella terra dei Messapi,
venticinque secoli e una stagione dopo, camminando con quella sua aria
disperatamente ingenua, anche lei, non per caso, giunse in visita al Palazzo
Baronale trasformato in museo, un po’ per velleità di studio, e un po’ per
curiosità.
Per quanto fossero ormai molti gli anni in cui d’abitudine tornava nel contado
della sua terra natale, molti per forza, alcuni per amore, altri per necessità,
quel pomeriggio di afa candida le appariva alla mente come l’inizio di un
viaggio a ritroso nel tempo. La piazza squarciata dallo scavo, l’apparente
disagio delle case impolverate intorno e l’indifferenza divina nei volti antichi
sulle soglie, per i quali il cantiere del tempio poteva anche essere l’ennesima
occasione persa per le istituzioni e per la gente.
Dov’erano andate a finire le piastrelle grigiastre sulle quali l’anno precedente
aveva ritmato senza muoversi, senza doversi far vedere da nessuno in quale
lontananza dell’anima era caduta, una danza antica, dov’era il suono del
tamburello e il canto del bastone della pioggia ad accompagnare una canzone
bella e disperata come il più bello e disperato degli amori che quella terra sa
generare? Era rimasto nell’aria il ricordo di un suono, e i volti rifilati nello
sforzo dell’elementare canto polifonico, prima terza e quinta con cambiamento in
dominante, qualche volta di quarto grado...
Il suono fantasma e il ricordo di Tahotorra si intrecciavano nella sua testa
appena un po’ reclinata sulla spalla sinistra, appena un po’ più basso lo
sguardo, appena un po’ triste. Spesso le lacrime si formavano negli occhi senza
scendere; allora era facile giustificarsi con la luce troppo forte di quella
piazza dorata, sempre più facile l’aver dimenticato gli occhiali e allora più
strette le palpebre, indietro le lacrime e i fantasmi, addio Tahotorra. Non mi
chiamare indietro al tuo tempo, io ho il mio, ho la mia presenza, ho dato a
questa terra che produce ancora fiori di ibisco due allegre risate di bambino,
ma...
Non sono come te, Tahotorra, non ho ruolo, non ho tempo dentro e fuori di me,
invano ho pregato Proserpina dell’eter-no ritorno di restituirmi una fertilità
piena, da vergine, e il mio tempo interiore. Ma la triplice dea della luna,
indifferente e solitaria mi sorride, la guardo bene e la vedo dalla finestra
dell’ospedale – il mio bambino lotta senza piangere contro lo pneumococco che lo
divora ed ha per alleato solo un antibiotico e la forza della sua mamma -
mentre, tu, Tahotorra, senza parlare, ritorni al tuo tempio remoto, tra latrati
di cagne destinate e vento di fiori di ibisco.
RIFLESSIONI E CRITICHE
Di Elena Aldrighetti
Da circa un mese mi sono cimentata a chattare, cioè parlo su Internet. Ho iniziato a farlo per curiosità, mi sono sempre chiesta cosa ci trovasse di bello la gente.
Ebbene, dopo un mese di prova, sono arrivata alla conclusione che le persone si sentono sempre più sole.
Sulla chat gli argomenti trattati sono molto futili e sempre a sfondo sessuale.
La chat viene quasi sempre utilizzata per “cuccare”, l’unico scopo è quello dell’incontro per
fare sesso, alcuni si accontentano di farlo telefonicamente. E’ frequentata da ogni tipo di persona, libera, sposata, giovane, meno giovane. Il titolo di studio è vario, ci sono molti liberi professionisti e anche qualche pensionato. Sia uomini che donne fanno a gara a chi dice più volgarità; comunque il doppio senso nelle frasi, c’è sempre.
A questo punto io mi domando: è a questo che serve la tecnologia? Le macchine ora hanno sostituito anche i luoghi d’in-contro tradizionali? Tutto ciò mi rende molto triste, L’uomo con la sua intelligenza non riesce a comprendere che, il rapporto fra esseri umani è fondamentale per la sua serenità psico-fisica.
Io parlo di rapporti reali e non virtuali. La solitudine è veramente una brutta malattia e, credo che, se si proseguirà ad affidare ad una macchina il compito di tenerci compagnia, anziché star meglio, diventeremo ancora più soli.
Di Giovanni Sartori
Popolazione mondiale: due contributi al dibattito aperto sul primo numero di gaia
Questa volta il ventesimo secolo si chiude davvero, e con il primo gennaio 2001 comincia davvero il ventunesimo secolo. Ma facciamo bene a festeggiare il giro dei millennio due volte. Perché se la follia umana non troverà una pillola che la possa curare, e se questa pillola non sarà vietata dai folli che ci vogliono in incessante moltiplicazione, il «regno dell’uomo» arriverà a malapena al 2100. Tra un secolo, di questo passo, il pianeta Terra sarà mezzo morto e gli esseri umani anche. Chi vuol esser lieto lo sia subito. Perché la certezza del domani è incerta (lo è sempre) per ciascuno di noi, ma è invece incerta per la specie, per l’homo sapiens. A meno, dicevo, che non venga sollecitamente scoperta una pillola antifollia.
Tutti sanno, anche se fanno gli struzzi, che il pianeta Terra è finito, e che perciò non può sostenere una popolazione a crescita infinita. E la «non sostenibilità» del nostro cosiddetto sviluppo è ormai sicurissima.
L’unico punto non sicuro della catastrofe ecologica in corso è quello del buco nell’ozono che ci potrebbe «bruciare» lasciando penetrare i raggi ultravioletti. Questo buco ha raggiunto una estensione pari a tre volte quella degli Stati Uniti. Ed è importante non solo di per sé, ma anche perché costituisce ad oggi l’uni-co pericolo che siamo stati in grado di fronteggiare. L’ozono viene distrutto dai gas usati per la refrigerazione e come propellenti nelle bombole. Non era difficile proibirli, e dopo tredici anni gli effetti di questa proibizione (che risale al 1987) sembra che si stiano facendo sentire. Però la persistenza dei gas in questione nella stratosfera era stata prevista male (si è rivelata maggiore del previsto), e quindi non è sicuro che tra mezzo secolo il buco nell’ozono non ci sarà più. Comunque, qui ci possiamo aspettare un mìglioramento. Ma su tutti gli altri fronti ci possiamo solo aspettare peggioramenti.
Cominciamo dall’effetto serra, e cioè dal riscaldamento della Terra provocato dall’anidride carbonica, dai carburanti e dal carbone. Qui non siamo a nulla. La conferenza dell’Aja di novembre non ha nemmeno ratificato la modesta riduzione entro dieci anni delle emissioni nocive concordata nel ‘97 a Kyoto. Così l’anidride carbonica aumenta sempre più a dispetto dei fatto che i suoi effetti sul cambiamento del clima siano sempre più evidenti e devastanti. Tra questi effetti c’è la crescita dei livello dei mari man mano che i ghiacci polari si liquefano (negli ultimi trent'anni l’oceano Artico ha già perso il 40 per cento della sua superficie ghiacciata); ma soprattutto e neil’im-mediato c’è una diversa piovosità che da un lato provoca disastrose inondazioni e dall’altro crea vaste zone di siccità. Senza perdermi nei particolari, tra 50 anni mancherà quasi ovunque l’acqua. Già oggi più di cinque milioni di persone muoiono ogni anno, nelle zone di alta povertà, perché bevono acqua contaminata. Già oggi oltre un quinto della popolazione mondiale soffre di scarsità di acqua potabile. Nel 2025 si prevede che due miliardi di individui non disporranno di acqua bevibile. Si capisce, possiamo togliere l’acqua all’agricoltura; ma in tal caso mancherà il mangiare. Il circolo è vizioso (e mortale) perché è risibile ritenere che potremo desalinizzare i mari: costi a parte, sarebbe come innaffiare una sassaia.
C’è poi la desertificazione o comunque l’erosione dei top soil, della copertura vegetale e organica che fertilizza il suolo (un accumulo di due centimetri che richiede mille anni). Ad oggi circa due miliardi di ettari di terra arabile e da pascolo un’e-stensione pari a quella di Stati Uniti più Messico risultano degradati. Il che mette a rischio l’alimentazione di circa un miliardo di bocche da sfamare.
E si calcola che se la desertificazione e degradazione del suolo continuerà al ritmo attuale, tra 50 anni l’Africa perderà metà della sua terra coltivata mentre la sua popolazione salirà (se i più sopravvivessero) a due miliardi di persone.
C’è infine la distruzione delle foreste. Gli alberi non solo ossigenano l’aria assorbendo l’ani-dride carbonica, ma salvano anche il top soil frenando lo scorrere delle acque piovane e per di più aumentano le riserve di acqua di falda consentendo l’infiltrazione delle piogge nel sottosuolo. Eppure la deforestazione continua alla grande. Abbiamo già perduto i quattro quinti delle foreste che esistevano prima che l’uomo si dedicasse alla loro distruzione. E quasi metà dell’ultimo quinto è a rischio: che 16 miiioni di ettari di bosco (due volte l’Au-stralia) vengono tagliati ogni anno; una devastazione che non è certo compensata dalla riforestazione. Anche perché gli alberi tagliati per produrre carta sono ripiantabili; ma non lo sono gli alberi che sono eliminati (al 60 per cento) da chi cerca nuova terra da coltivare per sfamarsi. Tutto questo perché? Perché succede? I deserti che crescono, e i pesci, gli animali, gli alberi, la terra coltivabile e l’acqua che decrescono, tutto questo immane insieme di disastri non è certo causato dail’ossido di carbonio. La causa di tutto ivi incluso l’ossido di carbonio è la sovrappopolazione, è una esplosione demografica che ancora nessuno ferma. Si fa finta di non saperlo, o proprio non lo si vuole sapere. Ma non c’è scomunica o tabù che può cancellare i dati che vado ricordando. Dopo decine di migliaia di anni, nel 1500 eravamo ancora 500 milioni in tutto. All’inizio del 900 eravamo due miliardi; oggi siamo sei miliardi. in un solo secolo la popolazione del mondo si è triplicata.
L’Unicef denunzia il dramma di 30 mila bambini che muoiono ogni giorno di malattie curabili. Non fa dramma, invece, che ogni giorno la popolazione del mondo cresca di più di 230 mila persone; il che fa circa sette milioni al mese, e 84 milioni all’anno. Ogni anno nascono così meno di due Italie ma più di due Spagne. Di questo passo nel 2015 saremo già cresciuti di un ulteriore miliardo; e nel 2050 saremo (al minimo) dieci miliardi o anche, in alcune proiezioni, 15 miliardi. Siamo impazziti? Sì, chi asseconda un siffatto formicaio umano deve essere impazzito. Si risponde che il calo delle nascite nei popoli sottosviluppati: avverrà «naturalmente» (quando!.Quando saremo 10-15 miliardi?) Con lo sviluppo economico.
Ma assolutamente no. Perché l’aumento incontrollato delle nascite è, circolarmente, causa ed effetto di povertà e di sottosviluppo. E poi, attenzione, quando saremo, ipotesi, il doppio di oggi (12 miliardi), la terra vivibile sarà, in ipotesi, la metà di oggi. Non so se il ventesimo secolo sia stato lungo o corto. Ma temo di sapere che se il giro del millennio non ci farà lestamente aprire gli occhi, il ventunesimo secolo sarà un secolo corto.
La prima guerra del terzo millennio o forse la terza guerra mondiale?
Di Maurizio Martini
Pochi sarebbero riusciti ad
immaginare che la prima guerra del terzo millennio avrebbe avuto inizio proprio
nel cuore degli intoccabili Stati Uniti d’America.
Invece, è avvenuto quello che sembrava incredibile. Nel regno della più
sofisticata elettronica, proprio nel Santa Sanctorum della tecnologia militare,
un attacco terroristico piuttosto complesso da attuare ma relativamente semplice
nell’idea di fondo, ha minato profondamente il cuore economico, simbolico e
appunto militare degli Stati Uniti. In pratica, in meno di un’ora ben quattro
aerei di linea hanno subìto una sorta di dirottamento,che ha visto un gruppo di
terroristi impadronirsi dei suddetti velivoli dirigendoli con tutto il loro
carico umano contro altrettanti bersagli a New York e Washington. Due aerei si
sono abbattuti sulle drammaticamente famose torri gemelle, alte oltre 400 metri,
le quali nell’arco di un’ora si sono praticamente afflosciate su se stesse in
una sorta di giorno del giudizio.
Un altro aereo si è abbattuto sul pentagono distruggendone un’intera ala. Il
quarto aereo invece, grazie alla coraggiosa ribellione dei passeggeri contro i
dirottatori è precipitato a terra impedendo così il raggiungimento del bersaglio
prestabilito.
Questi sono i fatti accaduti l’11 settembre; avvenimenti che hanno dato inizio
ad una preoccupante escalation militare.
Tutti in quel momento, abbiamo capito in maniera rapida e drammaticamente reale
quanto fosse dorato il mondo in cui avevamo vissuto fino all’11 settembre,
mentre dopo quella data abbiamo iniziato a comprendere che quel sistema di vita
si era definitivamente perduto, era stato vinto, spezzato da realtà e necessità
che un’altra parte troppo grande del mondo ha, e che nessuno di noi può ormai
far finta di ignorare.
Oramai come ben sanno i nostri lettori più affezionati, noi cerchiamo di offrire
spunti d’ap-profondimento, analisi dei fatti per quello che sono nella loro
oggettività, restando ben lontani da qualsiasi tipo di vicinanza politica, di
interesse particolare, ma soprattutto cerchiamo sempre di evitare inutili
ipocrisie.
Tale premessa, sembra necessaria se non altro per lanciare una sana e speriamo
forte provocazione.
In altri termini, intendiamo dire che anche in occasione di questi drammatici
avvenimenti, di ipocrisie se ne sono sentite fin troppe da molte parti e siccome
qui non stiamo commentando il risultato di una partita di calcio, ma stiamo
parlando del futuro dell’umanità crediamo sia giunto il momento per tutti noi di
confrontarci e nei limiti del possibile di mettere in luce quello che a troppi
disturba.
Il tempo di riempirsi la pancia, di sprecare tutto e di più e di non voler
vedere nient’altro che il nostro piccolo paradiso personale è finito.
Adesso non basterà più scatenare la furia militare per sopprimere i cattivi che
senza motivo, uccidono e distruggono tutto mettendo in pericolo l’evoluto mondo
civile occidentale.
Adesso è giunta l’ora di chiedersi e spiegare ad alta voce come mai ci sono
questi cattivi ed è fondamentale chiedersi se è proprio vero che i buoni sono da
una parte mentre gli altri sono tutti malvagi ed incivili.
L’11 settembre ci siamo trovati di fronte all’atto terroristico più grave della
storia moderna.
Dinnanzi a questo atto tutto l’occidente è stato concorde nella più ferma
condanna; condanna giunta anche da molti paesi arabi.
Fin qui, niente di male! A nostro avviso qualcosa ha cominciato a stonare quando
tutte le energie sono state impegnate nello stroncare il terrorismo mentre poco
o niente si è fatto per analizzare approfonditamente le ragioni lontane che
hanno potuto generare una situazione tanto esplosiva un po’ in tutti i paesi
arabi.
Ovviamente soltanto i bambini possono veramente credere alla storia che milioni
di persone siano pronte ad immolarsi facendosi saltare in aria soltanto per puro
fanatismo religioso.
Soltanto persone contraddistinte da una irrimediabile ignoranza, o al contrario
da un’infinita furbizia possono continuare a raccontarci la barzelletta
dell’A-rabo fanatico, terrorista, e arretrato.
A tal proposito, sarebbe importante ricordare che la culla della cultura più
raffinata proviene proprio da quei paesi e non certo dalle nostre zone.
In secondo luogo è il caso di non confondere evoluzione tecnologica e civiltà
nel senso più alto del termine; sono due cose completamente diverse!
Se venisse fatta una seria analisi su tali argomenti temo che molte nostre
convinzioni andrebbero polverizzate come sabbia al vento.
Senza dubbio noi occidentali possediamo una raffinata tecnologia utilizzata in
tutti i settori della vita, abbiamo raggiunto un certo grado di democrazia,
peraltro piuttosto teorica, al-l’interno della nostra collettività. Tutte cose
assolutamente concrete e necessarie ad un buon vivere, ma oltre a ciò non
possiamo vantare molto altro.
Invece l’essere umano nella sua complessità materiale e spirituale richiederebbe
molte altre conquiste forse più sottili ma probabilmente anche più importanti di
quelle da noi raggiunte.
Il mondo orientale in realtà possiede tesori molto importanti che per troppo
tempo sono stati ignorati, disconosciuti e calpestati proprio dalla nostra
civiltà.
Giunti a questo punto della nostra esposizione, proviamo a trarre qualche
concreta conclusione.
Intanto potremmo cominciare ammettendo con franchezza che la nostra superiorità
tecnologica cui prima facevamo riferimento ci ha permesso di sfruttare all’osso
le immense ricchezze di quei paesi.
Ricchezze, di cui soltanto una piccolissima parte è giunta a quei popoli, popoli
che non possiedono più neppure una propria dignità, tanto sono annichiliti nella
loro indicibile povertà.
Provi qualche politico o intellettuale di qualsivoglia specie a giustificare le
migliaia di bambini che ogni mese muoiono di fame. Qualcuno provi a spiegarci la
straziante scena di quelle piccole pance gonfie, quegli occhi sbarrati, con le
mosche che oramai divenute padrone di quei piccoli corpi morenti, si adagiano
sopra e all’interno di quelle povere bocche arse dalla morte. Ci spieghino
questi signori, come tutto ciò sia possibile ancora oggi nel terzo millennio.
Questa è una vergogna! Vergogna che ricade proprio su tutti noi che abbiamo la
fortuna di vivere in una condizione migliore. Come è facile comprendere, tutta
questa palese disparità nell’arco dei decenni ha generato un odio nei nostri
confronti manifestato nell’unico modo che quella gente possiede, vale a dire
appunto atti terroristici sanguinari. Dopo l’attentato agli Stati Uniti, una
misura fortemente pubblicizzata, è stata quella del congelamento dei conti
bancari riconducibili ad organizzazioni terroristiche.
Ora, a costo di sembrare banali, dobbiamo chiederci come mai quei conti siano
stati bloccati soltanto dopo quella tragedia, perché nessuno li ha congelati
prima?
Forse tutti quei miliardi di dollari non finivano soltanto nelle tasche dei
terroristi! Credo che anche su questo punto più che di un nostro dubbio maligno,
possiamo parlare di certezza!
Una parola la possiamo spendere anche per la famosa globalizzazione finalizzata
ad unificare tutti i popoli del mondo, migliorando di conseguenza la condizione
generale dei più poveri, almeno questo ci viene detto.
Tuttavia, anche in questo caso desideriamo mettere in luce un piccolo
particolare sempre omesso dai sostenitori di tale globalizzazione: intendiamo
dire che tale processo renderà ancora più potenti e intoccabili le
multinazionali, che pur in numero esiguo dirigono letteralmente il mondo.
Il fatto è un altro, l’umanità ad oggi non è pronta per una vera unificazione.
Questa realtà pura e semplice è confermata dai drammatici avvenimenti che da
settembre in poi stanno accadendo.
Da oriente ad occidente esistono culture ancora troppo distanti tra loro. Ancora
oggi sul pianeta esiste una profonda spaccatura soprattutto quando ci riferiamo
a tematiche religiose, spirituali, ma anche sul modo di intendere e usare i beni
materiali.
Un altro dubbio che ci assale in maniera inquietante è il seguente: tutti gli
stati conoscevano la pericolosità del terrorista Bin Laden, tutti conoscono la
tirannia di Saddam Hussein; allora invece di martoriare quelle sciagurate
popolazioni con inutili bombardamenti, perché i governi non hanno provveduto a
sopprimere questi personaggi con un’azione svolta dai servizi segreti?
Si potrà rispondere che tali personaggi sono iperprotetti e raggiungerli non è
facile.
Tale risposta, può essere accettata ancora una volta da persone profondamente
ingenue o estremamente furbe.
Volenti o nolenti, questi signori arabi hanno fatto comodo a tutto il nostro
sistema, ecco la semplice realtà per cui è preferibile bombardare sempre i più
deboli e innocenti, lasciando invece questi personaggi liberi. Giunti al termine
di questa esposizione che richiederebbe centinaia di pagine, dobbiamo capire che
fino ad oggi abbiamo vissuto in una realtà che chiamavamo pace e giustizia fino
a quando non venivano toccati i nostri interessi e i nostri affetti, mentre
chiamavamo guerra e ingiustizia gli eventi che toccavano proprio questi nostri
settori.
Dobbiamo comprendere che il dramma che tutti noi abbiamo vissuto vedendo la
tragedia statunitense, quei paesi così lontani da noi l’hanno vissuta molte
volte sulla loro pelle.
Si potrà contestare che non è possibile comparare eventi diversi fra loro, ma se
eventi diversi non possono essere paragonati nella forma, crediamo sia
indiscutibile che il sangue versato abbia la stessa importanza anche se viene
versato con modalità diverse, e chi lo versa conta meno di noi soltanto perché
più povero o tecnologicamente più arretrato. Quello che dobbiamo capire che
molto di quel sangue è proprio a carico delle nostre coscienze, e fino a quando
non ammetteremo questa triste ma indiscutibile realtà resteremo su un terreno di
incomprensione e le sofferenze che ci attenderanno saranno molto, molto
drammatiche.
Gli innocenti caduti in America, devono servire a qualcosa, sforziamoci tutti,
affinché quel sacrificio e tutti gli altri sacrifici sopportati dai nostri
fratelli orientali possano servire per fondare una vera e concreta
globalizzazione non economica, ma basata su valori di fraternità universale.
Che il Natale prossimo sia occasione di rinascita interiore e abbattimento di
tutti i pregiudizi che inaridiscono il cuore, e uccidono la nostra sacra
interiorità.
Di Elena Aldrighetti
Chi trova un amico trova un tesoro.
Spesso abbiamo sentito ripetere questa frase, poche volte vi abbiamo riflettuto sopra.
Oggi come oggi è veramente difficile trovare una vera amicizia. Io ritengo che amicizia e amore, spesso, si equivalgano, mi spiego. Il legame esistente fra due migliori amici e quello fra innamorati è praticamente identico. Come non si può rinunciare e fare a meno dell’innamorato o dell’innamorata, così, almeno per me, non si può fare a meno del migliore amico.
In questa società dove tutti corrono, dove tutti pensano solo a comprare, accumulare, i valori dei sentimenti spesso vengono dimenticati. Sarà perché sono in un momento particolare della mia vita, ma ho pensato molto a questi valori. Sovente capita di sottovalutare i sentimenti altrui. Si dà per scontato che un amico ti voglia bene. Invece bisognerebbe ascoltare maggiormente gli altri.
Cercare di capire cosa ci lega ad una persona piuttosto che ad un’altra.
Inoltre credo sia doveroso dire spesso che si vuol bene. Io sono contenta quando chi mi vuol bene me lo dice, non si deve dare nulla per scontato. I rapporti finiscono soprattutto per mancanza di comunicazione e per gelosie inutili. Credo che il difetto maggiore che abbiamo è quello di credere nostre proprietà coloro che amiamo. Quando sento qualcuno dire che siamo sempre più soli, penso che tutto sommato è vero.
Magari siamo attorniati da persone, chattiamo e intratteniamo amicizie telefoniche o via e-mail, ma nel concreto? Ora poi che vogliono obbligarci ad avere la televisione interattiva, le cose peggioreranno ancor di più. Si può fare la spesa da casa col computer, pagare le bollette via internet e fare ogni tipo di acquisto in rete. Molte persone lavorano fino a tarda sera e quando arrivano a casa, sono talmente stanche che non vedono l’ora di andare a letto. Ci si chiude sempre di più in casa. Andando avanti di questo passo, i rapporti interpersonali diminuiranno sempre di più. Ultimamente le notizie del telegiornale non fanno altro che informare su omicidi casalinghi. Sembra quasi che le case di tutti noi abbiano due faccie, un po’ come Dottor Jekyl e Mr. Hyde. L’apparenza è una cosa, la sostanza un’altra. Dico la verità, tutto ciò mi rattrista e mi preoccupa. Io ho sempre dato importanza al rapporto fra individui. Per me è molto importante la conoscenza fisica di una persona. Poter dialogare con qualcuno avendolo di fronte è tutt’altra cosa che farlo attraverso un cavo telefonico. Spero davvero che la gente comprenda tutto questo e che si possa dare un calcio a tutto ciò che è virtuale. L’amore di un amico deve essere reale come la sua presenza.
La nostra vita è, nel bene e nel male, reale. Un abbraccio e un sorriso sono impagabili e si possono avere solo frequentando le persone. Quando vedo mio padre che vive in casa, esce veramente poco e non ha amici, penso che sia molto triste trovarsi soli a rapportarsi con la televisione.
Io come amico non voglio un mezzo tecnologico!!! La tecnologia che dovrebbe renderci più liberi, spesso ci rende invece suoi schiavi. Davvero chi trova un amico trova un tesoro, l’importante è che questo amico sia reale e tangibile!!!
SPAZIO DONNA
Violenza e abuso come compagni
Di Veronica Franco
Avere la consapevolezza che nella nostra società c’è sempre stato chi ha “causato" violenze e abusi di ogni genere e chi li ha subìti, forse ha fatto trascurare nello specifico, le situazioni analoghe nei riguardi delle donne in situazione di svantaggio particolare, ovvero portatrici di handicap. Nella fattispecie ci riferiamo alla nostra categoria dove, le donne, hanno problemi di vista più o meno gravi fino ad esserne prive completamente. Nel giugno scorso a livello aassociativo nazionale dell’UIC, la Commissione per le Pari Opportunità è riuscita ad avere l’attenzione del direttivo proprio sulla tematica dei soprusi, ipotizzandolo, segretamente celato, nella vita delle nostre socie. Ha così antecedentemente presentato un progetto di indagine riservata, su territorio nazionale, proponendolo attraverso tutte le sedi UIC e fornendo un modello di scheda. Se qualcuno fosse stato interessato riempendola adeguatamente, poteva partecipare al progetto; gli si offriva di “confidare” i dolori e le umiliazioni indicibili, repressi nel loro io più profondo, con la garanzìa della riservatezza più assoluta. Dal 5 al 7 dicembre scorsi è stato organizzato poi, un convegno con il preciso scopo di puntualizzare attraverso relatori di tutto rispetto (esperti in sociologia, psicologia oltre che componenti degli stessi gruppi di discussione creati per la realizzazione del progetto), per aggiornare e discutere i risultati di tale proposito, mettendone al corrente i rappresentantni di tutte le sedi provinciali UIC; una convocazione voluta dalla sede centrale.
Pare superfluo dirlo, ma lo vogliamo sottolineare comunque, le presenze sono state quasi all’unaminità per le regioni delle quali, hanno presenziato in diverse province, e, per la quasi totalità, eravamo tutte donne. Alcune figure maschili tra i presidenti sezionali sensibili all’argomento, hanno assistito personalmente… forse qualche accompagnatore per l’occasione.
Ci siamo accomodate nella sala riunioni messa a disposizione per l’occasione nel complesso de “Le Torri” a Tirrenia, conoscendo l’ordine del giorno ma inconsapevoli di quanto avremmo udito in questo incontro, che come tanti appuntamenti associativi, sembrava una riunione come le altre, necessarie per la “nostra unione”; non è stato così.
Quasi immediatamente tutte abbiamo capito la profonda differenza tra i vari propositi e proponimenti progettati ad un tavolo e la cruda veridicità dei fatti che avrebbero costituito la pienezza di quell’incontro.
Dopo i saluti convenuti di chi presidiava e le presentazioni delle personalità partecipanti come ospiti e il contributo dei noti relatori, l’ordine del giorno indicava i contenuti delle presentazioni sociologiche e psicologiche così diverse nel loro contenuto e nelle loro estensioni, ma parallele sul fondamento del loro scopo. Indagini sondaggi e ricerche lunghe nel tempo fatte sul “campo”, un campo chiamato vita, dedite a dimostrare quanto c’era di poco umano nell’esistenza di persone, donne per lo più, con vicende personali, fondate sulla paura, le umiliazioni, le privazioni, le violenze che hanno il potere di rubarti la gioia e il sapore della vita.
L’atmosfera della sala era “attenta”; sembrava impossibile ma per quanto vi prestassi attenzione, nessuno pareva disinteressato o distratto, oserei dire che c’era un “rapimento” generale, nessuno perdeva una parola di quanto veniva detto. Poi l’intervento informativo sul vero e proprio lavoro dei nominati “gruppi di discussione”; un’esperienza definita oltremodo coinvolgente, dura per certi aspetti. Qualcosa che non ha potuto lasciare indifferenti.
Si è trattato di momenti di condivisione profonda, di crescita collettiva, di acquisizione di grande consapevolezza che avevano, in taluni casi oltrepassato ogni loro e nostra aspettativa.
Risultava difficile scegliere e descrivere un numero limitato di incontri estrapolandoli dagli oltre duecentocinquanta, in poche righe per portarci le testimonianze della sofferenza. Dopo una grande riflessione, la commissione delle pari opportunità aveva seguito l’esempio di quanto viene normalmente fatto da tutti i centri antiviolenza di tutto il mondo. Private le storie più significative senza voler nulla togliere alla gravità di ognuna, i riferimenti anagrafici, temporali, di tutti quegli elementi che potessero far individuare le protagoniste, per dare a tale relazione un taglio non teorico ma basandola sulla concretezza, per far comprendere anche a chi ha sempre sottovalutato il problema della violenza in relazione alla
disabilità, quanto essa esista invecee, soprattutto sia atuale. La realizzazione del progetto prevedeva la suddivisione del territorio nazionale in tre parti, nord, centro e sud, costituendo due centri di discussione al nord, quattro al centro e quattro al meridione, permettendo alle interessate un più facile raggiungimento; era stato semplificato questo compito, trovando molta disponibilità da parte di alcuni dirigenti e la collaborazione delle rappresentanti provinciali che venivano ringraziate, in quel momento, pubblicamente.
La relatrice che leggeva, aveva una voce calma, chiara, dal suo tono traspariva soltanto l’emozione della consapevolezza di diffondere la gravità delle barbarie sopportate dalle donne incontrate e non solo.
Noi che l’ascoltavamo, eravamo così partecipi a quelle verità, da sembrare una sola ed unica anima.
Le donne che si sono raccontate, nel pensare alla violenza si rappresentavano soltanto esclusivamente, in vissuti fatti di stupro o di molestie sessuali; così in cuor loro ritenevano di non essere mai state oggetto di alcun abuso . Ma ecco che a poco a poco, veniva loro spiegato il significato di violenza psicologica o sociale e così si sviluppava in loro una nuova autocoscienza. Emergeva il sommerso delle violenze patite e non riconosciute, cosa assai grave, dati i comportamenti inaccettabili che risultavano invece normali. L’adesione al progetto era stata di donne di età cultura ed estrazione sociale assai diverse, aventi il denominatore comune : della disabilità visiva. In taluni casi però, avevano voluto prendere parte agli incontri donne normodotate o soggetti con disabilità motorie ed alcuni uomini accettati profondamente dalle donne, ottenendo un risultato positivo riscontrato dell’abbattimento del muro di diffidenza reciproca perché cosa mai semplice.
Una donna nominata “Enza” così si era espressa: -Ho subito molte violenze nella mia vita, tuttavia ho sempre tentato di fornire all’esterno un’immagine diversa; mi sono costruita una facciata. Ora che per me sento mi sarebbe importante parlare di queste esperienze con tutte voi, ne ho paura, temo il vostro giudizio... Bene o male ci si conosce tutte.-
Ma “Enza” era stata incoraggiata e rassicurata dalle altre, : -a nessuno è consentito giudicare, specialmente in questi casi.- e così era riuscita a raccontarsi.
Il resoconto continuava, rendendoci partecipi del lavoro fatto. Ascoltavamo il fiume di parole - venendo a conoscenza delle gravi forme di violenza perpetrate all’interno delle famiglie: genitori che non accettando la minorazione delle proprie figlie, le avevano confinate per anni, in un letto letteralmente segregate dentro casa. Ciò si era verificato in piccoli centri, dove avere un figlio handicappato costituisce, in ambienti poco scolarizzati, motivo di vergogna. E purtroppo non abbiamo potuto pensare di riferirci ai così detti "tempi passati". Ci sono stati riportati casi, da persone aventi oggi, venticinque anni… quindi parve abbastanza preoccupante la questione. Continuavamo a seguire la relazione ripercorrendo insieme alcuni tra i casi più significativi. In particolare, seguì la storia di “Angela”, una donna del centro sud, piuttosto anziana, cresciuta in un istituto, dove prima bambina aveva conosciuto le prepotenze dei compagni più grandi, senza la più piccola speranza di essere difesa perché là dove gli insegnanti prima, ed i tutori poi, ormai cresciuta ai quali era stata affidata dalla famiglia, la sottoponevano a violenze e soprusi di ogni genre, compresi quelli fisici. Data l’educazione di quel tempo era impensabile, per lei, confidare a qualcuno quanto le succedeva e quanto sopportava… la vergogna e il sicuro scetticismo dei congiunti a crederle, l’hanno costretta a vivere con quel peso tutta la vita senza conoscerne l’indicibile entità. La nostra cara amica era cieca dalla nascita.
Una sorte molto simile era toccata a “Giulia”, un’amica di circa trent’anni, ma con un risvolto per fortuna del tutto diverso. Originaria del centro nord e cresciuta fino all’età scolastica a casa, aveva conosciuto l’istituto per essere agevolata a studiare perché seguita meglio; quindi i propositi della famiglia erano soltanto positivi. Ma anche lei ha dovuto fare i conti con l’umiliazione dell’emar-ginanzione e della non considerazione umana da parte dei rettori perché ritenuta “poverina”, limitata nelle sue capacità. “Giulia” non è cresciuta conoscendo il sorriso e, dopo la separazione dei suoi genitori, imponendosi di arrivare alla maturità per conquistare l’indipendenza professionale, o meglio per prepararsi a quanto supponeva l’aspettasse fuori da quelle mura, raggiunto il suo scopo e scopertasi tanto forte da tentare di farcela da sola, decise di non tornare più a casa. Non possiamo certo discutere sulla tipologia della
sofferenza provata, ma sicuramente i tempi diversi, le famiglie diverse ma lo stesso destìno, hanno reso queste vite diverse…
Anche per lei c’era stata il non poter dire e il non poter fare, non per mancanza d’amore, ma si può rendere partecipi anche chi ci ama della nostra “oscurità”?
Continuando ad ascoltare la relatrice in quel “riassunto demagogico” perché il significato si potrebbe concentrare nelle poche parole di sconosciuti obbrobri, i racconti delle vicende di chi aveva scelto di liberarsi l’anima, mi sono sentita raccapricciare oltre che come donna ed essere umano, anche come mamma, da una vicenda che sembrava uscita da un thriller dell’orrore e, come sono sicura per tutti i presenti, è stato motivo di sconvolgimento interiore e talmente profondo, da desiderare di non essere lì in quel momento o che fosse tutta una finzione quanto ci veniva letto.
In questa vicenda vi era coinvolta tutta una famiglia e mi scuso se non avrò la capacità di scrivere tali brutture con le parole più giuste ma, anche in questo preciso momento, è inevitabile il mio turbamento.
La cara amica di ciò che è avvenuto la chiamerò “Anna” e suo marito, vedente, “Luigi”. Sono genitori di tre bambini tutti in tenerissima età che varia dai due ai cinque anni voluti e desiderati nonostante le innumerevoli difficoltà che si incontrano nella quotidianità della vita di oggi nel crescere dei figli; sono una famiglia felice e spesso vengono aiutati, proprio per accudire loro, da parenti ed amici. Consapevoli dell’importanza di quell’aiuto fondamentale e di ogni cosa, riescono così ad essere buoni genitori. Ma accadde qualcosa che stravolse quel tranquillo equilibrio...
Dopo qualche tempo dalla ripresa del lavoro di “Anna”, in un giorno qualsiasi, appena rientrati da fare la spesa e ripresi i bambini dalla casa del loro “amabile” vicino che si offriva di accudirli dato che anch’egli era sposato e padre di due bimbi; proprio lei mentre faceva il bagnetto ad uno dei tre, le parve che qualcosa fosse cambiata in lui. Concentrandosi sul comportamento anche degli altri, scoprì, pur non vedendo, da tanti piccoli particolari che i suoi figli non erano più gli stessi. In qualche modo le parevano cambiati e, talvolta le domande che le facevano, riteneva impensabili fossero frutto della loro conoscenza infantile. Ella commise il primo suo grande errore, per paura di essere “giudicata” apprensiva senza motivo, come poi ha riconosciuto aprendosi al gruppo d’ascolto che ha raccolto la sua testimonianza, non rivelò le sue inquietudini a “Luigi”e continuò a carpire elementi opprimenti. Ma il silenzio non durò molto e messo a conoscenza delle sue paure il marito, cominciò a fargli notare quanto lei percepiva. Da quella confessione i due, collaborando insieme, riuscirono a trovare il motivo di quel comportamento tanto disdicevole e, soprattutto, riuscirono a trovarne la causa. O meglio dire chi lo provocava.
Gesti istigatori dei bambini, parole “sconce” atteggiamenti intimi da adulti in miniatura e pur se inorriditi dalla certezza di tale violenza e approfitto dell’in-nocenza più assoluta, la loro conclusione sull’amabile vicino era chiara: una abbietta persona, che a parer di ogni individuo che abbia una morale, una decenza o una qualsiasi dignità, non avrebbe avuto il diritto di esistere.
L’analisi di tutta questa vicenda andata oltre l’immaginabile fantasia di violenza fisica e psicologica, era stata quella di non aver nessuna possibilità di dimostrare quanto scoperto ma soltanto il rischio di essere una coppia penalizzata dalla probabile dimostrazione di non avere le capacità di crescere dei figli. Quanto disprezzo provato per sé stessa e quanta rabbia da parte di “Luigi” nel condiscendere il volere della moglie che, annientata dal disgusto e antecedendo a tutto l’amore per i suoi banmbini, preferì non lavorare più e prendendo la decisione di cambiare casa e paese, rinunciarono a qualsiasi tipo di denuncia sopportandone il peso.
Con la conclusione dei fatti narrati nella relazione della commissione delle pari opportunità ideatrice di tale progettto provatorio di crudeltà e violenze sopportate e subìte dalle donne già “colpevoli” di portare un handicap come quello visivo, era palesemente dimostrata la fondatezza dell’intento di tale servizio a beneficio di tutte noi, noi donne che oltre della nostra mancanza, soffriamo anche del disinteresse sociale nella peggiore delle sue forme: l’emarginazione spesso scaturita dalla paura ma quasi sempre dall’ignoranza. Sappiamo che ogni essere se donna, può soffrire di tali situazioni e non voglio certo peccare di vittimismo, ma a noi prima non aveva mai pensato nessuno ed io, oggi mi sento purtroppo, meno sola.
SPORT
Di Barbara Falconi
Un giorno un amico non vedente mi ha chiesto: “Possiamo imparare noi ad andare a vela?”. La mia risposta spontanea è stata un’escla-mazione, “Potessi sentire io, il vento come voi!”.
Da questo è nata un’idea, una scommessa ed un proposito; voglio riuscire a regalare a questo amico il vento!
Da oggi è nata l’associazione Wejna Sail per promuove il progetto “Pari opportunità nel vivere il vento”; è con questa iniziativa che intendiamo diffondere la navigazione a vela, come superamento di limiti sensoriali.
Con il nostro progetto speriamo di scoprire insieme, che non esistono barriere al nostro senso di libertà, per questo stiamo organizzando un corso di navigazione per non vedenti, finalizzato a raggiugere la capacità di stabilire una rotta e mantenerla.
Adesso abbiamo bisogno di amici che ci aiutino a raccogliere i fondi necessari per muovere i primi passi di questa avventura, che ci sostengano non solo economicamente, ma che ci aiutino con la loro fantasia e che ci accompagnino con il loro affetto.
Ci impegnamo così a creare un’opportunità, per chiunque non sia in grado di vedere, ma comunque di sentire e toccare, profumi e sapori esotici. Insomma abbiamo una barca, e se abbiamo voglia di navigare, decidiamo una rotta.
Aspetto una vostra risposta e confermandovi la mia voglia di esserci, vi aspetto per una buona navigazione in nostra compagnia. q
Per informazioni e contatti potete rivolgervi a:
Barbara Falconi, presidente dell’associazione Wejna Sail
Tel.: +393387778527
email:barbarafalconi@virgilio.it
Antonio Quadraro, vicepresidente dell’associazione Wejna Sail
c/o Unione Italiana Ciechi Firenze tel.: 055580319
Presto sarà disponibile il sito web: WWW.WEJNA SAIL.IT
La fine di un incubo e di un sogno
Di Maria Garcia
Mercoledì scorso, al termine dei funerali di Marco Pantani, svoltisi nella chiesa di San Giacomo a Cesenatico, la sua manager, Manuela Ronconi, ha letto l’ultima lettera scritta dal Pirata. Per le ragioni che vi spiegherò più avanti, quella sorta di testamento lasciato sia alla sua famiglia, sia ai suoi numerosissimi tifosi, mi ha molto colpita ed è stata la sua ultima frase (“tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare”) quella che mi ha spinta a scrivere queste righe. A Marco ho sempre creduto dal 1994, credo e ci crederò sempre, ed è per questo che vorrei compiere questa sua ultima volontà espressa a tutti i suoi tifosi allo scopo di rendergli, nella piccola misura in cui mi è possibile, il mio ultimo omaggio.
Dalla sciagurata serata di San Valentino in cui è stato trovato il suo cadavere fino ad oggi, si è parlato tantissimo della sua vita, dei suoi anni di gloria come professionista, dei suoi ultimi giorni, ecc. Perciò mi sembra inutile riparlarne ancora, e così, preferirei spostare la mia attenzione sui ricordi personali che mi suscita Marco Pantani, dopodicché vorrei analizzare alcuni punti poco chiari dei suoi ultimi anni esprimendo al riguardo il mio parere personale
Come ho già accennato, Marco Pantani ha segnato profondamente la mia vita dal 1994 fino ad oggi e in questi giorni così tristi in cui tutti noi piangiamo la sua morte, vorrei condividere con voi alcuni dei ricordi che mi ha lasciato per sempre.
Quando Pantani esordì nel Tour del '94 (alla sua prestazione nel Giro di quell’anno non ci badai molto perché allora lo ritenevo uno sconosciuto), avevo soltanto tredici anni, e così, per Marco, fu facilissimo entrare nel mio cuore, penetrarci fino in fondo, e rimanerci per sempre, facendomi non soltanto provare delle emozioni fortissime ogni volta che lo vedevo sferrare uno di quei suoi attacchi micidiali in salita, che nessuno di noi potrà mai scordare, ma giocando un ruolo importantissimo e per molti forse incredibile nei fatti che a prima vista potrebbero sembrare più insignificanti della mia vita quotidiana di ragazza.
Il primo segno e forse il più importante e duraturo che Marco lasciò in me riguarda la mia grandissima passione per la lingua italiana. E' vero che l’italiano è una lingua per cui ho sempre provato un grandissimo amore e l’ho sempre ritenuta forse la più bella al mondo, ma è anche vero che, malgrado la mia voglia (che avevo già da tempo) di studiarla, non c’ero mai riuscita e quindi, nel 1994, non esagero se vi dico che non ero in grado di mettere in fila due parole e che non capivo quasi niente. Ebbene, Pantani, e la grandissima voglia di capire quello che diceva nelle migliaie d'interviste che rilasciava, senza dover dipendere da una traduzione che, a volte faceva perdere tante parole, mi spinse definitivamente negli anni successivi allo studio di questa lingua. Il risultato ottenuto è che oggi, sono diventata traduttrice giurata di italiano cosìcché questa lingua meravigliosa è diventata uno strumento molto importante del mio lavoro.
Ma Pantani ha influenzato la mia vita quotidiana in tanti altri aspetti. Per elencarne soltanto alcuni (giàcché fare una lista completa sarebbe molto lungo e noioso per i lettori) posso dirvi che durante lo svolgimento dei Giri e dei Tour a cui Marco ha partecipato (soprattutto nei giorni in cui i corridori dovevano affrontare una tappa in salita), lui è sempre diventato il punto di riferimento assoluto delle mie giornate quotidiane, facendo dipendere i fatti che dovevo compiere in ognuno di quei giorni dall’ora e dal risultato della gara. Così, durante il Giro e, dato che a maggio essendo ancora studentessa, non avevo mai le vacanze, facevo del mio meglio per ritardare l’ora del pranzo (nel Giro del '98, dato che in quei giorni dovevo rimanere a casa a studiare per l’esame di Maturità) per poter guardare la tappa mentre pranzavo, oppure, quando negli anni successivi sono andata all’università, cercavo di studiare i più possibile prima della tappa, per poi potermi sedere sul divano davanti alla TV a guardare tranquillamente gli scatti sferrati da Marco nelle salite, che mi emozionavano così tanto e mi riempivano il cuore di una gioia immensa. D’estate, al Tour (che ascoltavo sempre su una sdraia in piscina), facevo dipendere le ore in cui mi andava di fare il bagno dall’ora della tappa, e finita questa, il mio umore era diverso a seconda del risultato ottenuto da Marco: se gli era riuscita bene, provavo un gran bisogno di ringraziarlo per le emozioni vissute, cosìcché (e benché l’acqua fosse già abbastanza fredda e non ci fosse più il sole), mi buttavo in piscina e mi facevo 20 o 30 vasche tutte d’un fiato e senza fermarmi nemmeno una volta, rischiando certo di finire con le braccia indolenzite; comunque, non me ne importava niente. E se invece le cose andavano male, mi arrabbiavo e mi lamentavo del risultato (quasi sempre criticando la prestazione degli altri corridori) davanti a chiunque. Poi, la sera, mi mettevo ad ascoltare lo stereo e, ognuna delle canzoni che mi piacevano in quell’epoca (ricordo due cd dei Collage che mi regalarono in quell’epoca, alcune canzoni di Ramazzotti, di Laura Pausini, ecc.) mi ricordava le grandi gesta compiute dal “pirata” in quel pomerigio primaverile o estivo. Per non dilungarmi molto nei miei ricordi, forse troppo personali e di scarso interesse per i lettori, dirò soltanto che in quei mesi, la figura di Pantani diventò molto importante per i miei studi, essendo in grado di farmi rimanere una sera davanti ai libri senza essere capace di memorizzare nemmeno una pagina (per il nervoso causato dall’impossibilità di guardare la tappa dolomitica di quel giorno e dell’incertezza che provavo) ma dandomi anche la forza (quando la tappa era andata bene) di poter assimilare velocissimamente il contenuto di un gran numero di pagine. Tutti questi ricordi si sono risvegliati nella mia mente da domenica mattina quando mi hanno dato la notizia della sua
morte, e si sono mescolati alle riflessioni che ho iniziato a fare dopo aver sentito, giorno dopo giorno, lo svolgimento della ricostruzione degli ultimi anni e degli ultimi fatti della sua vita, ai quali vorrei fare riferimento di seguito, per adempiere al monito di parlare che Marco ha fatto a tutti noi tifosi nella sua ultima lettera. Come hanno detto tutti i cronisti, il suo calvario e l’ine-sorabile cammino verso la sua morte, sono iniziati quello sciagurato 5 giugno del '99 in cui, Pantani è stato squalificato dal Giro (un giorno prima della sua fine) per avere un livello troppo alto di ematocrito nel sangue; ebbene, credo sia da questo fatto che debbano partire tutte le riflessioni.
Abbiamo letto e sentito in questi giorni che, di solito, quando un corridore (e ce ne sono stati parecchi casi) è escluso da una gara ciclistica per questo motivo, subisce come sanzione una sospensione di quindici giorni durante i quali non può partecipare a nessuna gara ufficiale, dopo di che può tornare a correre senza nessunissimo problema. Ebbene, ecco qua la prima differenza fra Pantani e gli altri, dato che lui, anziché subire tale divieto, ha deciso di rifiutarlo, scegliendo la strada delle proteste per la sua squalifica e delle rivendicazioni della sua innocenza; beh, questo fatto ci suscita indubbiamente una riflessione molto profonda e importante. Nel caso in cui Marco avesse effetivamente preso quella sostanza proibita (la famigerata Epo) e ne fosse stato in perfetta conoscenza, che senso avrebe avuto rifiutare la sospensione e cercare di far credere ai tifosi un’innocenza che lui sapeva finta? E, ovviamente, se era in perfetta conoscenza di aver preso una sostanza proibita, che senso avrebbe una depressione? Sinceramente in queste circostanze, soltanto uno sciocco avrebbe agito come ha fatto Pantani, soltanto uno sciocco avrebbe rifiutato quella sospensione quindicenale e, avrebbe scelto di rivendicare ad ogni costo la sua innocenza e avrebbe avuto una terribile depressione, e la prova è che finora nessuno dei corridori che sono stati squalificati per questo motivo ha fatto questo tranne Pantani. Da tutto ciò quindi mi sembra chiaro ribadire l’im-possibilità che le cose siano andate così.
Ma per ribadire questa mia tesi, accennerò ad un altro dato che ne porterà la conferma. Tutti i tifosi (e quindi più ancora i corridori e i direttori sportivi delle squadre) sanno benissimo che due giorni prima della fine dei tre grandi eventi ciclisti annui (Il Giro, Il Tour e La Vuelta), alcune squadre (quelle che non li hanno subiti prima) sono sottoposte a questi controlli del sangue e, sapendo anche come lo sappiamo tutti noi, che ci sono dei mezzi (utilizzo di diuretici ecc.) usati per abbassare il livello dell’ematocrito. È ovvio pensare che, date le circostanze di quell’anno (Pantani comandava la classifica con un distacco gigante sul secondo classificato), Pantani e la Mercatone 1 non avrebbero mai rischiato la squalifica, da una parte perché non avendo subito ancora il controllo sapevano di doverlo subire quel giorno e poi, perché caso mai avessero preso quelle sostanze (di cui, tra l’altro date le circostanze, Pantani non aveva alcun bisogno) avrebbero fatto di tutto per abbassare il livello dell’ematocrito; quindi questo fatto ci mostra che le cose dovettero andare in un altro modo, cioè che Marco Pantani o non aveva preso quella sostanza,
o (caso mai l’avesse presa, come da quanto abbiamo sentito in questi giorni fanno tutti, ma proprio tutti i ciclisti, compresi i dilettanti), c’era qualcosa in tutto ciò di cui lui non era affatto a conoscenza, e dunque, tutto ciò ci porta a dire che Marco Pantani in un modo o in un altro è stato ingannato da qualcuno. Non sapremo mai se fu ingannato dal medico (che forse gli fece prendere una dose maggiore rispetto a quella normale oppure non fece in tempo ad abbassare i livelli di ematocrito), ingannato da quelli (detti vampiri) dell’U.I.C (che gli hanno fatto il controllo in condizioni o con degli strumenti che non sono i normali. Insoma non sappiamo né come né da chi né tanto meno il perché, ma a mio avviso risulta chiarissimo che Pantani ha subito un inganno da parte di qualcuno senza che lui ne fosse a conoscenza, perché altrimenti la sua reazione sarebbe stata la stessa che, tranne lui, hanno sempre avuti tutti i ciclisti squalificati e invece lui non ha agito così.
A tutto ciò, dobiamo aggiungere le parole dette dal suo compagno di squadra, Marco Velo, riportate ieri sulla stampa, in cui affermava di avere sentito la sera prima della squalifica, delle voci che parlavano del fatto che Pantani non sarebbe partito il giorno dopo e anche quelle del suo massaggiatore, che aggiungeva che mezz’ora dopo il
controllo i giornalisti ne sapevano già il risultato; se queste due testimonianze fossero vere, allora verrebbe fuori chiaramente la creazione di un complotto vero e proprio contro “il Pirata” il che sarebbe gravissimo e farebbe scoprire i veri colpevoli della sua tragica morte. Ma anche qui ci poniamo una domanda: ma se questi due sapevano tutto ciò, perché non ne parlarono allora? Forse per la paura dei processi, delle minacce o addirittura delle costrizioni che potrebbero aver subito? Credo che questo sia un mistero sul quale si dovrebbe far luce ma che purtroppo non riusciremo a chiarire mai. Ma i problemi di Pantani non finirono con quella squalifica, a mio avviso ingiusta, ma anzi, quella non fu che il suo inizio, a cui seguirono una angosciosa catena di sette processi in diversi tribunali italiani in cui c'era un unico accusato che si ripeteva, il povero Marco Pantani. Su questo fatto bisognerebbe discutere a lungo, soprattutto dal punto di vista tecnico, per cui bisognerebbe scrivere un articolo indipendente, e perciò qui ci limiteremo a dire che anche su questo fatto Pantani è stato trattato in modo molto diverso dagli altri corridori; infatti è stato lui l’unico a subire dei processi, con le umiliazioni al suo onore, al suo prestigio personale, alla sua fama e, soprattutto, alla sua dignità di uomo che ne derivano.
Ma, riguardo i processi, non è soltanto che Marco Pantani abbia subito un trattamento diverso dagli altri corridori ma anche da altre persone legate al ciclismo, e di questo, almeno da quanto sappiamo noi, nessuno ne ha ancora parlato. Infatti, nella sua ultima (e già tristemente famosa) lettera, Pantani affermava (fatto che è stato ribadito ieri dalla Stampa) di essere stati sia lui che altri corridori, e perfino le loro famiglie, controllati da tele-camere nascoste, fatto che, come abbiamo già accennato è stato confermato ieri dalla stampa, secondo cui quelle telecamere registrarono delle immagini dei ciclisti (alcuni perfino nudi) nelle loro camere d’albergo durante lo svolgimento del Giro 2001, immagini che (per fortuna soltanto alcune di esse), abbiamo visto tutti in TV…. E allora come mai nessuno vi ha mai indagato, dato che, questo fatto sì è chiaramente, un reato che attenta indubbiamente al diritto all’intimità, protetto dalla Costituzione, uno dei diritti fondamentali più importanti dell’uomo? Ha forse più importanza una (probabilmente falsa) frode sportiva, che un reato chiarissimo di violazione dell’intimità personale? Sinceramente più ci penso e più la cosa mi sembra incredibile.
Infine, e per non allungare molto queste piccole riflessioni, spostiamo il nostro sguardo da quel drammatico 1999 al più tragico e triste 14 febbraio 2004, giorno di San Valentino in cui, mentre tantissime coppie festegiavano felici e gioiose il loro amore in un ristorante, un cinema, un parco, ecc., Marco Pantani veniva trovato morto con l’unica compagnia di parecchie scatole di ansiolitici e di una sostanza bianca (secondo il parere dei tecnici, probabilmente cocaina) nella stanza di un anonimo residence riminese. Anche questo fatto merita, secondo il nostro parere, una riflessione molto profonda e dolorosa. E’ vero, e l'ha riconosciuto anche lo stesso Marco nella sua lettera, che negli ultimi tempi (ma sempre dopo la fine della sua vita come sportivo) aveva iniziato a prendere la cocaina, fatto che ci deve portare ad individuare le cause di una scelta così terribile e disperata. Dalla sua squalifica dal Giro '99, Marco Pantani di fronte alla disperazione causata da questo fatto, si è sentito completamente solo, abban-donato e anche tradito da tutti. Abbandonato e tradito da molti che quando lui vinceva sulle vette italiane e francesi dicevano di essere dei tifosi sfegatati ma che poi, appena sono stati resi noti i risultati di quelle analisi, sono stati i primi a crederci, si sono subito scordati delle emozioni che Pantani gli aveva fatto vivere e dell'ammirazione che dicevano provare verso di lui e hanno iniziato a criticarlo, e addirittura (e credo questo sia ancora peggio) a dargli apertamente e senza esitazione del drogato. Questo però dimenticando da una parte la presunzione di innocenza (riconosciuta ad ogni uomo per il fatto d'esserlo) e dall'altra il fatto che quella sostanza è venduta in farmacia ed è permesso
comprarla a qualsiasi persona che non c'entri con lo sport (invece le droghe sono illegali); e soprattutto hanno scordato che se ipotizziamo che Pantani l'abbia presa, dobbiamo tener presente che questa sostanza è assunta da tutti i ciclisti (dilettanti compresi) e che dunque Pantani (caso mai l’avesse presa, particolare che non arriveremo mai a scoprire con totale certezza), non avrebbe fatto niente di diverso da quel che fanno gli altri, e che quindi, è completamente ingiusto prendere nel mirino (come hanno fatto coi processi di mezzo) soltanto lui.
Ma non finisce lì la lunga catena dei tradimenti, dato che è stato anche abbandonato e tradito dalla stragrande maggioranza (so che non si deve mai fare di tutta l'erba un fascio) dai giornalisti che, malgrado l'ingente quantità di pagine sui giornali, programmi su radio e TV che hanno potuto riempire parlando delle grandi gesta di Pantani, appena rese note le analisi hanno iniziato a criticarlo, per poi dimenticarsi di lui quasi completamente (niente articoli, niente notizie sulla situazione di Pantani in TV) fino al giorno della sua morte, momento da cui, certo, tutti sono tornati a scrivere migliaia di pagine (a volte in modo forse un po' ipocrita) dandogli del povero ragazzo morto da solo, vittima della sua depressione. Ed infine, è stato tradito dagli organizzatori del Tour de France che, nonostante lo spettacolo che Marco ha regalato al Tour, hanno deciso di vietargli la partecipazione, il che mi sembra una grandissima vergogna, che si è conclusa mercoledì scorso con l'assenza del suo presidente (il Signor Leblanc) ai suoi funerali, sinceramente credo che Marco Pantani obbiettivamente sia stato un grande campione e credo che questo fatto dovrebbe essere bastato affinché Leblanc fosse venuto a dargli l'ultimo saluto.
E allora, cos'è successo? Davanti a tutti questi fatti, Pantani ha dovuto sentire un grande vuoto attorno, nel vedere che quello che era stato il suo mondo per il quale aveva fatto così tanti sacrifici, gli aveva voltato le spalle e così, è piombato in una terribile depressione senza uscita. E da lì all'assunzione di droghe (concretamente di cocaina in questo caso) c’è soltanto un passo. Come tutti noi sappiamo (almeno dicono così perché io non le ho mai prese), le droghe sono allucinogeni che quando si prendono danno una sensazione d'euforia che fa dimenticare tutti i problemi ma che, nello stesso tempo, distruggono ogni giorno di più (come ha riconosciuto lo stesso Marco nella lettera). Forse Pantani ha cercato di dimenticare tutti i problemi derivati dalla squalifica (i processi, i tradimenti, le critiche ingiu-stificate, ecc.) allontanandosi dal suo mondo e da quelli che sono stati i suoi veri amici di tutta una vita, per rifugiarsi tra le braccia di persone completamente indifferenti a lui, alle sue gesta e al suo sport, soltanto perché gli fornivano quelle sostanze che gli facevano, almeno per qualche ora, dimenticare tutto il suo calvario. Comunque, la cosa più chiara è che non dobbiamo giudicarlo per questo, perché quando una persona è depressa (e dunque malata) non è consapevole dei suoi atti e del suo atteggiamento e poi perché se ognuno di noi dovesse trovarsi nella stessa situazione, non sappiamo come reagirebbe. Nella sua lettera, Marco ha chiesto a tutti noi, i suoi veri tifosi, di parlare, e con queste piccole riflessioni credo di averlo già fatto.
Mi resta da dire soltanto che la morte di Marco Pantani è stata per lui la fine dell'incubo che viveva da 5 anni, e per noi tifosi, la fine del sogno di vederlo tornare sulle montagne come il grandissimo campione che è sempre stato.
Ricorderò sempre l'enorme simpatia con cui si è rivolto a me quando sono andata ad incontrarlo alla Vuelta di qualche anno fa e che, quando nel prossimo Giro d'Italia il Mortirolo (quest'anno nominato Cima Pantani) sfiderà maestoso i corridori, ricorderemo le sere d'oro di Marco con pena e tristezza, perché ci mancheranno quegli attacchi che in passato ci hanno fatto vibrare così tanto. Infine, è chiaro che mercoledì scorso a Cesenatico non abbiamo dato l'ultimo addio a Marco Pantani, perché ora lui è lassù, in Paradiso, finalmente in pace, e sono convinta che dal cielo guarderà tutti noi tifosi, con quella faccia dolce e sorridente che aveva quando gareggiava e quando l'ho incontrato alla Vuelta. Così, è chiaro che il suo ricordo (con le sue gesta, la sua costanza, i suoi sacrifici come ciclista e i suoi valori umani) rimarranno sempre nella nostra anima. Spero che questo piccolo omaggio gli sia piaciuto e dato che la sua morte non significa un addio, ci restano soltanto da dire con tutto il nostro affetto due parole: Ciao Marco.