Sembra assurdo come ci sforziamo a pensare che i nostri interlocutori siano capaci di “imbrogliarci” parlando di malattie e veniamo tacciati di promulgare dei messaggi non veritieri. Mi riferisco alla richiesta di aiuto che con grande professionalità e generosità è partita da più mailing list per dare voce ad una ragazza di appena tredici anni, che ha legato la speranza di vita solo dalla donazione del midollo osseo di un donatore, perché affetta da una grave forma di leucemia. Per riservatezza non possiamo rilevare il nome della ragazza, ma possiamo ben dire che è figlia unica e tra i parenti purtroppo non si è ancora trovato la piena compatibilità per il trapianto. Attualmente l’adolescente si trova ricoverata in centro specializzato del Centro Italia, proprio a testimonianza che l’aiuto chiesto non è una ” bufala”.
AVVISO
Una ragazzina di 14 anni, malata di leucemia, deve fare al più presto il trapianto di midollo e purtroppo è necessario ricorrere al trapianto da “estraneo”, in quanto i parenti non sono compatibili.
In Italia i donatori di midollo sono troppo pochi e quindi è indispensabile sensibilizzare tutti alla donazione, in modo che possa esserci la speranza di trovare un midollo compatibile.
Per donare il midollo, bisogna avere un’età compresa tra 18 e 40 anni e non avere o avere avuto:
malattie allergiche;
auto-immuni;
dell’apparato respiratorio;
gastro-intestinali;
osteo-articolari;
tumori benigni e/o maligni;
tubercolosi;
diabete;
convulsioni;
attacchi epilettici;
malattie cardiovascolari;
ipertensione;
malattie infettive;
ittero;
epatite virale;
malattie renali;
ematologiche;
reumatiche;
tropicali;
tatuaggi e/o piercing.
Occorre sottoporsi ad un semplice prelievo di sangue preliminare, che è completamente a carico del Servizio Sanitario, presso il Centro trasfusionale di ogni Ospedale, firmando il consenso all’iscrizione nel Registro Italiano Donatori Midollo Osseo.
Per il prelievo non occorre l’impegnativa medica, ma solo la tessera sanitaria.
I lavoratori dipendenti possono richiedere il rilascio di certificazione attestante il prelievo eseguito, in quanto la legge n. 52 del 2001 riconosce un permesso retribuito.
Eseguito il prelievo, i risultati dell'analisi vengono inseriti nel Registro nazionale computerizzato che raccoglie i dati provenienti da tutta Italia.
Se viene riscontrata la compatibilità con un paziente in lista di attesa, il donatore viene richiamato dal Centro per un ulteriore prelievo di sangue.
Se è confermata l’effettiva compatibilità, il donatore sarà richiamato ad effettuare il prelievo di midollo osseo nel centro più vicino alla sua città.
Il prelievo di midollo avviene in anestesia generale, dura circa un'ora e non comporta alcun danno o menomazione per il donatore.
A solo scopo precauzionale, si preferisce tenere il donatore sotto controllo per 12-24 ore e non è necessaria l'assunzione di farmaci né prima né dopo la donazione.
Il midollo prelevato dal donatore si ricostituisce nell'arco di 10/15 giorni, riportando quindi il donatore stesso nella sua condizione iniziale, senza aver subito alcuna menomazione. Fabrizio Frizzi ha donato il midollo qualche anno fa e, come possiamo vedere tutti, sta benissimo.
La donazione è volontaria, anonima e gratuita.Per fissare un appuntamento per il prelievo presso il Centro trasfusionale degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, contattare la mattina, dal lunedì al venerdì, il referente ADMO (Associazione Donatori Midollo Osseo) – Antonio Preteroti – cell. 333/7583327.
l'Accademia Italiana Shiatsu Do, in collaborazione con il Consiglio
Regionale Toscano dell'Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti, visto il
notevole interesse dimostrato nelle precedenti edizioni, organizza a
Firenze, un nuovo corso introduttivo Shiatsu aperto a tutti, non vedenti ed
ipovedenti.
Lo Shiatsu, definito un po' impropriamente come massaggio, e' una tecnica manuale di trattamento corporeo che trae origine dall'esperienza millenaria della medicina orientale, ma che da svariati anni anche in occidente, si e' inserita in un contesto sia di benessere psicofisico che riabilitativo. Un trattamento shiatsu consiste in una serie di pressioni non invasive, mantenute perpendicolari e costanti eseguite con l'uso del pollice e del PALMO DELLA MANO, lungo aree e punti che costituiscono "l'impalcatura energetica" del corpo umano.
I corsi, organizzati dall'accademia Italiana Shiatsu Do, sono volti a formare professionisti
qualificati nel settore del benessere e della conservazione della salute. In un momento in cui i tradizionali sbocchi lavorativi dei disabili della vista risultano sempre piu' insufficienti a fornire un impiego soddisfacente, e talune mansioni, come quella del centralinista, stanno rapidamente scomparendo perche' desuete, l'esercizio professionale di questa disciplina puo' diventare una
valida alternativa lavorativa. Altre figure professionali come fisioterapisti, psicologi, psicoterapeuti, possono trarre beneficio dall'utilizzo di questa metodologia di trattamento. Il metodo sviluppato per questa tipologia di corsi, privilegia il lavoro guidato verbalmente, per assicurare all'allievo non vedente o ipovedente, la piu' agevole comprensione delle tecniche utilizzate. come e' gia avvenuto nelle precedenti edizioni, l'Accademia Shiatsu Do, in base all'interesse dimostrato dai partecipanti, proporra' la realizzazione di un primo percorso professionale. Il corso si svolgera' a Firenze nei giorni sabato 09 e domenica 10 aprile, ed avra' una durata di 12 ore distribuite nell'intero week end, al solo costo della tessera associativa dell'aCcademia (Euro 60).
Per chi proviene da fuori Firenze, l'organizzazione offre come di consueto, l'opportunita' di pernottare gratuitamente all'interno di essa usufruendo dei tatami e futon a disposizione.
per iscriversi al corso, e' necessario effettuare un bonifico bancario pari a 60 Euro, a favore di:
Fani Sauro, IBAN: IT 64 I 05728 21501 490570112530
indicando nella causale del bonifico vostro nome e cognome e la dicitura "corso introduttivo shiatsu".
Per informazioni, potete contattare Sauro Fani cell. 347/3801448, email:
sauro.fani@gmail.com.
Carissimi lettori,
Per problemi tecnici, in questo numero, vi sono costretta a mettervi a dieta! Non preoccupatevi però, dal prossimo numero, quello estivo, torneremo alla normalità.
Saluti e al prossimo numero!
All’Università “Suor Orsola Benincasa” di Salerno si celebra la Giornata del Braille
Si è tenuto lunedì 21 febbraio alle ore 11.00, presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Salerno, il convegno sul tema “Il Braille e l’autonomia dei non vedenti”, organizzato dall’associazione “Una voce per vedere” e dall’Uic Salerno, Unione Italiana Ciechi, in occasione della Giornata del Braille. Le relazioni sono state affidate a Bianca Maria Farina, presidente del corso di laurea in Scienze del Servizio Sociale proprio al “Suor Orsola”; Antonella Cirigliano, presidente della cooperativa “Leggere chiaro”; Gennaro Petraglia, docente universitario; Vincenzo Massa, presidente dell’Uic Salerno. Nel mezzo l’intervento della dottoressa Mariagrazia Antoniello, volontaria dell’Uic Salerno, sull’importanza del Metodo Braille che è la strada maestra dei non vedenti. Importanza hanno anche le nuove tecnologie che permettono alle persone affette da cecità o ipovedenza, di comunicare in modo più significativo con i loro cari.
L’iniziativa è stata anche un’occasione per divulgare nel mondo della scuola, del segretariato sociale, delle strutture socio-sanitarie e assistenziali del mondo del volontariato, la grande invenzione di Louis Braille, il quale riuscì, con il sistema di scrittura e lettura a rilievo, a rivoluzionare la comunicazione tra i non vedenti e i vedenti e ad abbattere il grande ostacolo dell’analfabetismo che colpiva alla fine dell’800 e ai primi anni del ‘900, la stragrande maggioranza dei privi della vista.
La parola “Sibilla” potrebbe avere il significato di “VERGINE NERA” una divinità che opera in un luogo oscuro, com’è l’antro nel quale la tradizione la colloca nei momenti in cui pronuncia i suoi “vaticini”.
L’idea ce l’aveva avuta Ada, la mia ragazza: “Visitiamo l’antro della Sibilla. È qui vicino.”
Eravamo accaldati perché avevamo fatto l’amore in auto, nello spiazzo antistante gli scavi. Osservai il cielo: “Tra poco si scatena un temporale.”
“L’auto è qui. Se piove, staremo al riparo nella grotta della Sibilla, ma non pioverà, lo sento.”
“Adesso sembri la Sibilla cumana che predice il futuro.”
Davanti alla guardiola dove si staccano i biglietti non c’era nessuno. D’inverno, i visitatori si contano sulle dita di una mano. La partita del Napoli in casa contro la Juve tenne molti incollati alla tivù-sky. Tutto deserto come un cimitero. Deserto tomba.
Andammo a staccare i biglietti per l’entrata. Un uomo anziano, grasso e con voce rauca, si sporse dalla guardiola e ci disse con la testa piegata di lato: “Massimo un’ora e poi chiudo. Fate presto…si scatena un temporale. E’ meglio che ve ne andate al cinema.”
Ada si era indispettita: “Vogliamo visitare l’antro della Sibilla cumana.”
L’uomo guardandoci sottecchi staccò i due biglietti, dicendo tra sé: “Fottetevi.”
Scavato nel tufo della montagna con tecniche vicine a quelle degli edifici micenei, l’antro della Sibilla è un lungo corridoio trapezoidale, in fondo al quale c’è un ampio vano rettangolare nel quale la Sibilla cumana pronunciava i vaticini. Le sei aperture laterali sul lato occidentale, lungo il percorso della galleria, simili a feritoie, servirebbero a dare luce naturale all’ambiente. Queste sei feritoie permettono la visuale su sottostante litorale flegreo. Prima di entrare tenendola per mano, osservai il paesaggio. Lontano, il faro di Capo Miseno baluginava nel nero della nuvolaglia, come remota stella in siderei abissi. L’antro era pieno di ombre e non si vedeva il fondo. Ada non aveva paura. Dissi: “Facciamo presto.”
Eravamo quasi al centro della grotta che un fulmine illuminò la scena. Il tuono che seguì fu assordante. Ada gridò: “Torniamo indietro. Ho paura dei fulmini.”
“In fondo c’è anche il fantasma della Sibilla, la vuoi vedere?”
“Andiamo via. Sta piovendo.”
Usciti all’aperto, la fitta pioggia impediva di vedere oltre i rispettivi nasi. Grido strozzato. Era scivolata su un tronco spezzato, davanti alla caverna. Le tesi la mano e la illuminai in faccia con la pila. La mano bagnata e scivolosa si strinse con forza intorno al mio polso. La tirai verso di me.
“Piano. Mi sono fatta male.”
Si alzò dolorante. Si era ferita al petto. Usciva del sangue, ma illuminando meglio, vidi che la ferita era alquanto superficiale. “Mi sono slogata anche una caviglia, mannaggia!”
“Aggrappati a me. Poche decine di metri e siamo in auto.”
La pioggia offuscava ogni cosa. L’auto ci aspettava oltre l’inferriata della biglietteria. Vincemmo la furia del vento, gli spruzzi della pioggia violenti e freddi, la paura dei fulmini ed il frastuono dei tuoni. Al sicuro in auto prendemmo fiato. “Fa vedere.”
Avevo fatto luce con la pila sul suo petto, sopra l’attaccatura delle mammelle. Ada si stringeva con la mano la ferita sul petto che sanguinava.
“Non è profonda.”
“Però brucia e sanguina. Sono caduta su una scheggia di un ramo.”
“Per fortuna, non è niente.”
Si era tolta l’impermeabile. Aveva addosso un maglione a punta e sotto una camicia di cotone aperta sul petto. Era tutta sbracata e infangata coi lembi della camicia che uscivano dai pantaloni. Sembrava un clown melodrammatico. I capelli inzuppati le si erano incollati in faccia.
“Mi fa male la caviglia, mannaggia.”
Ce ne andammo via inseguiti dai fulmini e dalla pioggia che non scemava.
“Aspetta, Ettore. Non trovo il mazzo di chiavi. Le chiavi di casa. Mio padre mi ammazza. Mi sono cadute a terra dove sono scivolata. Le avevo in una mano per sicurezza.”
“Devo tornare al nastro di partenza. Pazienza.”
“Vengo anch’io.”
Zoppicante, doveva restare in macchina. I suoi capelli grondavano acqua a catinelle. Tutta sbracata, si sforzava di darsi un contegno. “Vuoi che venga con te?’
Chiese tanto per far vedere, premendosi il fazzoletto sul petto sanguinante.
“Lo vedi che sei tutta sbracata?”
Ritornai davanti alla guardiola. Le ante erano serrate ed il custode di certo stava andando via. Ritornai sui miei passi, verso l’antro della Sibilla. Dovevo trovare le chiavi in pochi minuti. Il custode poteva andare via da un momento all’altro, sbarrando i cancelli.
Il vento mi scuoteva come una canna. Camminavo piegato in avanti. La pioggia mi sferzava in faccia, sul cranio e sulla spalle. Con la pila presi ad illuminare il terreno. Se le trovavo, bene; altrimenti si faceva fottere: lei e le chiavi di casa. Fulmini, vento e pioggia a raffiche. Sembrava che il cielo avesse liberato le Furie. I gemiti del vento, il tonfo del maroso, la cortina delle frasche smosse, il fitto velo di pioggia trasformati in un coro di antiche parole. Ebbi l’impressione di udire suoni e voci inesistenti. Silenzio intorno a me come se avessi avuto un improvviso ottundimento del sensorio. Il vertiginoso silenzio mi dava angoscia. La pioggia fluiva intorno a me, ma senza rumore. Apparve dalle tenebre la sagoma di una giovane donna. Dubitai di me stesso. Poteva essere l’agitazione del momento. La donna aveva le stesse fattezze di Ada. Sollevò una mano e l’aprì. Nel palmo aveva un mazzo di chiavi. Come un automa presi le chiavi. Dovevano essere quelle di Ada. Osservando meglio, al chiarore dei fulmini, la ragazza ebbe una trasfigurazione: era molto rassomigliante ad Ada. L’orrore mi strinse il cuore. Davanti ai miei occhi, lei. “ADA!”
Vestiva in uno strano modo. Sembrò una bizzarra visione. Guardai meglio. Era identica ad Ada, ma non era bagnata. La donna era coperta da una specie di tunica di seta nera, fluente sui piedi. Era come se sognassi. Dal petto uscì il mio grido disperato: “Ada.”
Silenzio. Freddo e vano silenzio vacuo. Non ci capivo niente. Aveva il viso asciutto come pure i capelli. Ero impietrito. Uno di quei momenti in cui hai la testa vuota. Inutile cercare una ragione logica. Era lei e non era lei, poteva essere mai possibile? Pronunciò una enigmatica frase:
CHAOS CHRONOS CHTHONIOS veritatis fundamenta sunt. Quella frase trafisse la tenebra e mi terrorizzò più di prima. Mi sentivo mancare. Si girò come automa e sparì nelle profondità dell’antro. Ci fu accecante fiammata, il tuono ed il buio fitto. Mi feci forza ed andai via da lì. La pioggia riprese a scrosciare ed il vento ad ululare come invasato. Trovai Ada che m’aspettava nervosa in macchina. Disse appena mi vide: “Finalmente sei tornato.”
Stentavo a risponderle. Ero sotto choc: “Sei, sei. . . rimasta per tutto il tempo qui?”
“E dove volevi che andassi. Facciamo presto, fuggiamo. Hai preso le chiavi?”
“Eccole.”
Le mise in borsa stampandomi un bacio in faccia.
“Tu, comunque.. .non ti sei proprio mossa da qui?”
“Sta a vedere che con questo tempo mi veniva voglia di farmi una passeggiata al chiaro di luna.”
Mi guardò stupita come se delirassi. Fingeva? Sicuramente, non s’era mossa da lì. Era infradiciata e tremante. Non aveva avuto il tempo di travestirsi da donna dell’antica Grecia.
Ada imprecò: “Maledetta pioggia.”
Dissi: “Domani mi faccio una TAC al cervello.”
Sembrò non capire. Fingeva?
Più che parlare di viaggio in Libia bisognerebbe parlare di viaggio nelle Libie. Infatti, lo scalcinato Boeing 727 che da Tripoli ci porta a Sebah, nel sud del paese, segna il confine tra due realtà geograficamente, territorialmente e culturalmente molto diverse tra loro.
Sul Mediterraneo la Tripolitania, abitata dagli arabi libici. Verso est la splendida città romana di Leptis Magna, l'antica capitale, i cui resti mostrano una ricchezza, un’eleganza e una raffinatezza davvero uniche. Dall'altra parte, verso ovest, l'altra importante città romana di Sabratha, l'antico porto, che abbiamo la fortuna di visitare in una splendida giornata e in totale tranquillità, accompagnati sempre dal rumore delle onde, rendendo tutto molto suggestivo. Tra le due, la città di Oea, l'attuale Tripoli e circa 200 chilometri di una strada costellata di sacchetti di plastica e di immondizie di ogni tipo e, a parte ciò che hanno lasciato gli italiani, il quasi nulla. Un quasi nulla in parte colpevolmente dovuto al sistema assistenzialistico adottato dal regime di Gheddafi che, distribuendo le briciole dei ricavi del petrolio, concede a tutti un salario minimo e a troppi un impiego statale più o meno fittizio, eliminando qualsiasi velleità di evoluzione ad un popolo che certamente non ha nell'iniziativa e nella voglia di lavorare le sue caratteristiche migliori.
A sud invece il deserto e l'affascinante scoperta del popolo Tuareg con la sua lingua Tamashek, la sua genuinità e il suo orgoglioso senso di appartenenza. Dire deserto è decisamente limitativo. Bisognerebbe dire i deserti, deserti continuamente diversi che, di volta in volta, si spalancavano ai nostri occhi, rivelando paesaggi sempre nuovi, simili tra loro solo per la vastità ed il silenzio.
Forse non abbiamo scelto il modo migliore per godere sino in fondo del fascino e delle emozioni che questi luoghi straordinari possono trasmettere. Durante il nostro soggiorno abbiamo ascoltato storie, racconti e consigli che ci hanno fatto capire quanto sarebbe stato più bello vivere il deserto dormendo in piccole tende, spostandosi in fuoristrada o persino a dorso di dromedario. Ma questo a noi sembra davvero troppo per la nostra scarsa capacità di adattamento.
Noi ci siamo accontentati. Ci siamo accontentati di scoprire il deserto dormendo 2 notti in un piccolo albergo di Germa e altre 3 in tende grandi e confortevoli, senza per questo privarci delle cene a base di zuppa e sabbia. Ci siamo accontentati di percorrere in fuoristrada, guidati dai nostri amici tuareg Barka, Saddek, e Arbih, centinaia di chilometri, arrampicandoci sulla cima delle dune per poi precipitare dalla parte opposta in un mare spumeggiante di sabbia impalpabile sino a perdere il senso della dimensione, di lanciare le macchine a quasi 100 km all'ora su immense spianate di sabbia compatta, di inoltrarci in labirinti di pietra tra pinnacoli e rocce dalle forme più bizzarre, di gustare una improvvisata tazza di tè sulle rive di un laghetto blù perso nella sabbia chiara all'ombra di striminziti arbusti, di percorrere antiche vallate tra rari cespugli di fiori e spine accorgendosi improvvisamente di un ragazzino che corre dietro il suo branco di asinelli lanciati al galoppo. Ci siamo accontentati dei simpatici pic-nic, all'ombra di alte e ripide rocce, allestiti dal nostro cuoco con tanto di tavolini, sedie, piatti, posate e bicchieri e comunque lontani da tutto e da tutti, mentre le nostre guide si sdraiavano nella sabbia o improvvisavano ritmi e canti della loro tradizione con genuino divertimento. Insomma ci siamo accontentati e chi si accontenta gode!
Unico piccolo neo: il cielo non sempre limpido, a volte lattiginoso, a causa del vento da sud, che ci ha privato di quei favolosi tramonti e quei cieli tersi e stellati di cui avevamo così tanto sentito parlare.
In compenso siamo stati fortunati nel trovare come capo guida il nostro amico Barka, ragazzo intelligente e simpatico e soprattutto profondo conoscitore delle invisibili vie del deserto che, con un ottimo italiano, ci ha fatto apprezzare ogni sfumatura dei luoghi e della sua cultura.
E a sottolineare la piacevolezza e la simpatia di semplici gesti ormai a noi quasi sconosciuti, mi fa piacere ricordare quando, in attesa del volo di ritorno a Tripoli, i nostri uomini blù hanno acceso un fuoco sul prato di fronte all’ingresso dell’aeroporto e, seduti insieme sulle stuoie abbiamo ancora scambiato due parole e fatto una risata, prendendo in giro il sorridente Sadek per un improbabile tè la cui acqua non si scaldava mai. . .
. . .Shukran Sahra, alla prossima. . . sempre naturalmente INSHALLAH!!.
Reggio (Rhegion) fu fondata verso la metà dell'VIII secolo a.C. da coloni calcidesi. Nell'89 a.C. divenne municipium romano. Nel IV secolo d.C. divenne residenza del governatore (corrector) della Lucania e del Bruzio.Nel 61 d.C. San Paolo, nel corso dei suoi viaggi, fece tappa anche a Reggio. Subì il saccheggio dei Visigoti di Alarico nel 410 l’assedio degli Ostrogoti di Totila nel 549. Per più di cinque secoli rimase sotto il dominio dei Bizantini. Dal IX secolo, Reggio fu oggetto di ripetute incursioni e razzie da parte degli Arabi di Sicilia. Nel 1060 Reggio fu conquistata dai Normanni di Roberto il Guiscardo; venne istituito il primo arcivescovato latino. Nel 1267 posso sotto il dominio degli Angioini. Nel 1433 il re aragonese Alfonso il Magnanimo conquistò Reggio. Nel 1502 ad opera del Gran Capitano Consalvo di Cordova fu assoggettata al potere del re di Spagna, Ferdinando il Cattolico.È del 1543 il terribile saccheggio ad opera del condottiero turco Khayr al-Din come nel 1594 un altro saccheggio fu operato da Scipione Sinan Cicala. Passata sotto il governo dei Borbone, la ripresa economica avvenne nel corso del ‘700.
Due tragici eventi segnarono però la storia di Reggio in questo periodo: l’epidemia di peste del 1743 e il terremoto del 1783 che causo ingentissimi danni e dovette essere praticamente ricostruita su progetto di Mori. Sotto il governo di Gioacchino Murat venne istituito il primo Liceo cittadino e furono iniziate numerose opere pubbliche. Nel 1814 Reggio ritornò sotto il dominio borbonico. Il 2 settembre del 1947 scoppia la rivolta antiborbonica, ma la reazione del governo fu durissima: morirono Domenico Romeo ed altri, come Paolo Pellicano, Agostino e Antonino Plutino finirono in esilio. Il 21 agosto 1860 Reggio fu conquistata dai garibaldini. Il 28 dicembre 1908 Reggio venne devastata da un altro terribile sisma e dal maremoto. Della ricostruzione, lenta e difficile si occupò l'ingegnere Pietro De Nava e Giuseppe Valentino sindaco della città nel periodo compreso fra 1918 al 1923. Sotto il governo fascista fu creata la "Grande Reggio" con l’accorpamento di ben 14 comuni limitrofi ad opera del Potestà Giuseppe Genoese-Zerbi. Durante la Seconda Guerra Mondiale la città fu ripetutamente bombardata. Fino a quando le truppe alleate non entrarono a Reggio. Il primo sindaco fu Priolo. Il 2 giugno 1946 a Reggio i maggiori consensi per l’elezione dell’Assemblea costituente li raccolse la Democrazia Cristiana. Fra il luglio 1970 e il settembre 1971 esplosero in città dei moti di protesta poiché il Capoluogo di Regione divenne Catanzaro. Dagli anni ‘60 in poi si delineò un fenomeno di emigrazione verso il Nord Italia che si prolungò per tutti gli anni ’70. Negli anni ’80 la città attraverso una fase difficile dovuta al ripercuotersi sul tessuto sociale degli eventi legati alla cosidetta "guerra di mafia" che seminò centinaia di morti e ad inchieste giudiziarie che coinvolsero le amministazioni comunali dell’epoca.
La città si estende per 23 chilometri lungo le rive orientali dello Stretto di Messina e si arrampica lungo le pendici dell'Aspromonte fino a 1708 m. del monte Basilicò.
Le sue coordinate geografiche sono di 38°05'20"" di latitudine Nord e di 15°38'36"" di longitudine Est.
Reggio, è il centro urbano più popoloso della Calabria, è situata all’ estremità meridionale della penisola, tra le pendici dell’Aspromonte e la sponda orientale dello Stretto di Messina.
E' una zona fertile grazie al clima mite e alla ricchezza di acque, in cui si sviluppano le colture dell’ulivo, della vite e degli agrumi, in particolare del bergamotto, pianta che cresce esclusivamente nella fascia costiera che va da Reggio a Gioiosa Jonica. Più volte rasa al suolo da catastrofici terremoti, ha sempre saputo rinascere dalle sue rovine, costruendosi via via un’ immagine proiettata nel futuro senza dimenticare mai la propria storia. Una città singolare e luminosa le cui ricchezze architettoniche, artistiche e ambientali ne fanno uno dei luoghi più interessanti del meridione.
Tra i principali luoghi di straordinaria bellezza e tradizione da poter visitare spiccano le coste,Tirrenica e Ionica e la catena dell'Aspromonte,rinomata vetta calabrese.
L’insenatura di Scilla è un quadro unico al mondo, in uno scenario da 'Mille e una notte', con il Castello dei Ruffo appollaiato sull’erta rupe a ridosso delle acque, spesso sede di convegni e rassegne espositive. Ai piedi del Castello si adagia la Marina Grande: una baia da sogno, con gelaterie, pizzerie, disco-pub e numerosi ristoranti dove è possibile assaporare ottimo pesce appena pescato. In prossimità del porticciolo si trova la Chiesa dello Spirito Santo, un pregevole esempio di barocco calabrese.
Giunti sotto il Castello, proseguiamo fino alla darsena, dove si scopre la vera perla nascosta di Scilla: è Chianalea, un borgo fiabesco che sembra essere emerso dalle acque.
L'ora del tramonto è ideale per recarsi al quartiere di San Giorgio: ad oltre sessanta metri di altezza sulla Marina Grande, permette di intravedere la costa siciliana che si nasconde dietro Ganzirri, tra cielo e mare tinteggiati di viola e di arancio.
A pochi minuti da Scilla si trova Bagnara.È questa la patria delle matriarche calabresi, le "bagnarote" dalle vesti drappeggiate alla maniera greca e la tempra virile.
Da cartolina il Castello Emmarita, sullo sfondo blu intenso del mare, con le case del paese che digradano fino ai terrazzi ricchi di vitigni. Lasciata Bagnara e proseguendo in direzione nord, s’incontra il Promontorio del S. Elia, splendido luogo di stampo irlandese in cui grandi scorci verdi si alternano a panorami incredibili, con le Isole Eolie a stagliarsi sulla linea dell’orizzonte. Declinando verso il mare, incontriamo Palmi: sterminate pianure di uliveti fanno da corona alle spiagge di sabbia fine.
La località offre mare, divertimento, freschi pomeriggi all’ombra della folta vegetazione a pochi passi dal mare, ma anche l’occasione di scoprire la calabresità in tutte le sue forme più tradizionali.Il Museo di Etnografia e Folklore è un piccolo gioiello di antropologia: costumi, ceramiche, terracotte, presepi, strumenti antichi utilizzati per i lavori nei campi, le famose conocchie.Palmi è anche luogo dove tradizioni religiose e usi popolari si intrecciano con effetti mirabili: assistere alla processione della varia è di certo un’esperienza unica.
Sospesa tra Occidente e Oriente, invece la costa che cinge il mar Jonio è un susseguirsi di spiagge incontaminate e millenarie roccaforti: il primo centro balneare che incontriamo è Melito Porto Salvo, dove Garibaldi sbarcò con i Mille per ben due volte, per proseguire con Capo Spartivento, Bova, Palizzi, luoghi di grande suggestione e dal mare incredibilmente cristallino.
Superata l’estrema propaggine meridionale della penisola, ci portiamo in direzione di Bianco, famoso per il suo "vino greco". In prossimità di Ardore si trova il suggestivo Santuario della Madonna di Bombile, scavato in una parete di tufo che si affaccia sulla vallata sottostante, dal bel portale in pietra del 1750 circa. Il ritorno sulla costa ci impone una lunga sosta nel cuore della Magna Grecia: Locri Epizephiri è la città della Dea Persefone, con una vastissima zona archeologica con Templi, Necropoli e l’Antico Teatro.
Sulla costa jonica si trovano località di inestimabile bellezza, a pochissima distanza le une dalle altre, come ad esempio i centri di Siderno e Gioiosa Jonica. In questa cittadina, in agosto, si svolge la tradizionale festa di San Rocco a passo di tarantella e si conservano i resti della Villa Romana del Naniglio.
Superate Caulonia e Riace, attraversiamo Monasterace, per ritrovarci nel cuore della Calabria bizantina: Punta Stilo ne è il capolinea obbligato.
Deviando verso l’interno troviamo la suggestiva Cattolica, con i suoi affreschi preziosi e, poco distante, tra i boschi di Bivongi, la chiesa di San Giovanni Therestis, col santuario dei monaci Greco-Ortodossi del Monte Athos.
Nel punto in cui l’Aspromonte digrada verso il mare, l’antico borgo di Gerace conserva, intatto, un ricco patrimonio architettonico ed artistico: la Cattedrale, una delle più grandi in Calabria, fu costruita intorno all’anno Mille e rappresenta una delle meraviglie del patrimonio di chiese di origine bizantina. Da visitare anche la Chiesa di San Francesco, in cui si conservano importanti sculture del ‘300, ed il maestoso castello di Roberto il Guiscardo, da cui si gode un panorama mozzafiato.
In vetta ai due mari, Jonio e Tirreno, custode silenzioso di luoghi sacri e foreste incantate, di grotte misteriose e ripide cascate di acqua pura. L’inverno lo tinge di bianco, l’autunno lo colora di rosso: l’Aspromonte, ad un passo dal cielo, affacciato sul mare. Selvaggio, a tratti inesplorato, l’Aspromonte affascina per le sue contraddizioni: una natura scontrosa che cela meraviglie inattese. Il Parco Nazionale d’Aspromonte è una vera e propria "riserva", un luogo di relax totale per i visitatori, un’oasi verde per gli animali: la macchia fittissima di abeti, faggi e castagni è l’habitat ideale per molte specie in via d’estinzione. Gambarie è la sede del Parco, un luogo in cui è possibile trascorrere una fresca estate ed un piacevole inverno, tra natura, sport e divertimento. Giunti nella località Tre Aie, si attraversa un lungo viale tra i boschi: la sosta alla "fontanella" è d’obbligo, per assaporare l’acqua leggera che proviene dalle più pure sorgenti della montagna. Simpatici chioschetti di prodotti tipici, confezionati artigianalmente dalle contadine del posto, si snocciolano lungo il percorso per arrivare al centro del paese. È un quadro di particolare effetto: con gli abiti tipici ed i classici "fazzoletti" in testa, le donnine vendono, orgogliose, ricotte, formaggi, salumi, insaccati e l’odorosissimo origano. La piazza di Gambarie è circondata da hotel e ristoranti, aperti in tutte le stagioni. La seggiovia permette di raggiungere in pochi minuti la vetta, che offre uno spettacolo magnifico: tra i monti si può scorgere il mare e l’Etna. La cima più alta è quella di Montalto, che tocca i 1956 m., dove si trova una Rosa dei Venti ed un monumento al Redentore eretto nel 1901. Escursionismo e trekking, sci e ippica: difficile annoiarsi. D’estate è possibile recarsi al vicino laghetto per la pesca delle trote; d’inverno la località diviene meta prediletta degli sciatori. Ma il fascino di questi luoghi non è legato esclusivamente alla natura: anche la storia vi ha lasciato un segno importante: a pochi chilometri dalla località Sant’Eufemia d’Aspromonte si trova il "Cippo Garibaldi", dove l’eroe rimase ferito durante uno scontro con i piemontesi. Ancora oggi esiste il gigantesco pino cui Garibaldi si appoggiò dopo il ferimento. Nello stesso luogo, in un piccolo museo, si conservano oggetti e foto di epoca garibaldina. Da Gambarie si può raggiungere il luogo simbolo della religiosità e del folklore reggino: il Santuario di Maria di Polsi, in cui è possibile ritrovare l’atmosfera mistica che portò i monaci Greci a rifugiarsi tra queste montagne. Il centro più vicino a Polsi è San Luca, il paese che diede i natali ad uno dei massimi scrittori calabresi: Corrado Alvaro. La capacità di svelare liricamente la realtà umile e dolorosa della sua terra ne ha fatto uno degli autori calabresi più conosciuti nel mondo.Il Lago Costantino, o degli Oleandri, si formò nel 1972 a seguito di una grossa frana che, cadendo a valle, ostruì il corso della fiumara Bonamico. Risalendo il torrente, che alimenta il lago vicino all’abitato di San Luca, si possono ammirare splendide gole, le cui pareti si affacciano a strapiombo su di essa. Poco lontano da questa oasi, si stacca maestosa Pietra Cappa, un enorme monolito di oltre cento metri di altezza, sulla cui origine si narrano varie leggende. Il nome deriva dal medioevale "cauca", vuota. La vallata, definita la "Cappadocia della Calabria", è caratterizzata da questi enormi blocchi di roccia, erosi dalle pioggia e dal tempo. Un corridoio naturale, creatosi per una frana, permette di attraversare la parte sottostante, nelle cui vicinanze si trovano i resti della chiesa di San Giorgio.
Reggio,un paese di ninfe e mostri marini, di fate e di eroi.Terra di incantesimi e sortilegi, cantata da D’Annunzio, celebrata dai viaggiatori inglesi dell’Ottocento: Reggio Calabria alimenta la sua magia, sospesa tra fiaba e realtà...
Proiettata verso un futuro mediterraneo, conserva tutto il tepore rassicurante della cittadina di provincia ed il fascino accattivante della località turistica. I paesaggi, la vegetazione, i colori, il profumo della zagara e del bergamotto: la mediterraneità di Reggio Calabria si manifesta con una sorprendente varietà di suggestioni. Il Lungomare ne è la sintesi perfetta: un’apoteosi di palme, ficus, rarissime specie tropicali ed esotiche, a pochi metri dalla battigia: uno degli scenari più incantevoli del mondo.
Tra natura e storia, cultura e tradizioni, divertimento e curiosità. Un viaggio alla scoperta della città della Fata Morgana (Fenomeno naturale che genera una magica visione: nelle giornate particolarmente calde e dal mare calmo, la città di Messina proiettando la propria immagine sulle acque dello Stretto apparirebbe sospesa sull'acqua,più vicina alla sponda Reggina,creando una fusione d'immagine unica tra le 2 città). Reggio Calabria è una città di arte e di scienza, gelosa dell’eredità di un passato glorioso, ma protesa verso un futuro di sviluppo e progresso. Il Museo Archeologico Nazionale custodisce magnifiche ed antiche memorie di età preistorica, greca e romana, ed i vigorosi guerrieri di Riace sembrano difendere tanta ricchezza; l'arte ha il suo luogo simbolo nel Teatro Comunale Francesco Cilea, che rivive oggi gli splendori di un tempo.
L'Università "Mediterranea", l'Università per Stranieri "Dante Alighieri", l'Accademia di Belle Arti, il Conservatorio "Francesco Cilea", rappresentano i motori del sapere, in una realtà che vanta un livello di secolarizzazione tra i più alti in Italia. Reggio Calabria è una realtà in pieno fermento culturale: dal cinema alla letteratura, dal sociale allo sport, si moltiplicano circoli ed associazioni, club e gruppi di giovani che si confrontano sui temi più diversi.
Salve a tutti,
dopo questa mia brevissima presentazione troverete un bellissimo racconto scritto dalla signora Anna Toni.
Ci è piaciuto pubblicare questo scritto perchè esso racconta una storia realmente accaduta nel quale la protagonista e l'autrice stessa.
Il racconto parla di una ragazzina sulla quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo.
Ma grazie alla sua determinazione, a distanza di qualche anno, è riuscita a prendersi una rivincita su chi non aveva creduto in lei.
Tutto si potrebbe sintetizzare col famoso modo di dire: chi la dura la vince!
buona lettura!
G. LURGIO.
Fondi di bottiglia
Quando fu il momento di iscrivermi in prima elementare i miei decisero di mandarmi all'Istituto S. Caterina, dalle suore, perché considerati i miei problemi di vista ritenevano che fosse più adatta una scuola privata. In quell'istituto frequentai le elementari e le medie inferiori.
Ogni anno dopo le vacanze di Natale la scuola entrava in fermento: cominciavano i preparativi per la festa della madre superiora chche cadeva il quindici marzo, per me cominciava un periodo di sofferenza. In occasione di quella festa che avrebbe impegnato non solo il giorno quindici, ma tutta la settimana dal sabato precedente alla domenica successiva, tutte le classi dall'asilo alle magistrali preparavano i loro spettacoli. A me piaceva immensamente recitare e ogni anno speravo che mi assegnassero una parte, ma regolarmente venivo scartata. Se fosse toccato anche ad altre forse me la sarei presa un po' meno, ma ero sempre l'unica e non comprendevo il perché di quella continua esclusione, non comprendevo perché proprio io che avevo il teatro nel sangue dovessi restarne fuori.
In prima media finalmente scoprii il motivo per cui mi si impediva di recitare, o forse sarebbe più esatto dire che mi fu sbattutto in faccia. Fungeva da regista la signorina Cappello, la nostra insegnante di lettere e quell'anno aveva scelto un'operetta: "la reginetta di Sumba", ma poiché noi eravamo soltanto dodici l'avrebbe messa in scena insieme alle ragazzine di seconda. Un giorno durante la lezione ci disse che dopo il pranzo avremmo dovuto ritrovarci tutte nel teatro per la distribuzione delle parti; anch'io vi andai, pensavo che ora che non c'era più la mia maestra delle elemntari le cose sarebbero cambiate. La Cappello cominciò a distribuire i suoi fogli, quando vidi che ero rimasta l'unica senza una parte chiesi:"Ed io cosa devo fare?"
Mi guardò come se avessi bestemmiato:
"Tu non puoi recitare con quegli occhiali così spessi."
"Potrei toglierli."
"No, saresti impacciata nei movimenti e per recitare bisogna essere disinvolte." "Ma signorinaà." Volevo spiegarle che in un ambiente conosciuto in genere mi muovevo sicura, ma quella con un tono deciso che rasentava la cattiveria mi troncò le parole in bocca: "Ho detto che non puoi." E subito mi volse le spalle per dare inizio alla prima lettura del copione. Naturalmente tornai a casa infuriata.
"Non prendertela," mi disse mia madre, "finite le medie ti iscriverai a un corso di recitazione e magari diventerai una vera attrice, alla faccia di quella lì." Ma questo non servì a consolarmi perché ero convinta che se la colpa era dei miei occhiali la scuola di recitazione mi avrebbe senz'altro rifiutata.
Negli anni successivi non andai nemmeno più alle consuete convocazioni nel teatro tanto, ormai lo capivo, per me non c'era alcuna speranza, ma spinta da un'incontrollabile forma di masochismo andavo ad assistere alle prove, anzi facevo di più: mi procuravo un copione e aiutavo un paio di amiche a migliorare la loro recitazione.
Con l'avvicinarsi degli esami di terza media in casa si cominciò a parlare di cosa avrei fatto in seguito; dissi che volevo iscrivermi al ginnasio, ma in una scuola pubblica, dissi che ero stufa di vedermi sempre suore intorno, ero stufa delle messe obbligatorie per questa o quella ricorrenza, dei ritiri quaresimali etcàà, ma tacqui sul vero motivo che mi spingeva a quella scelta: nella scuola pubblica non c'erano madri superiore da festeggiare.
Gli esami erano finiti ed io ero stata promossa; un capitolo della mia vita si chiudeva e a ottobre sarebbe cominciata una nuova avventura. Mentre i miei si intrattenevano con suor Cecilia, la professoressa di matematica, uscii in giardino; senza la consueta animazione il luogo aveva un non so che di malinconico e sonnolento. Volsi lo sguardo alle porte delle aule del pian terreno e del teatro con le persiane chiuse, sostai per un poco davanti alla grotta artificiale con le pareti foderate di edera e la statua della Madonna al centro circondata dalle piante fiorite di suor Giuseppina, quante volte quando ero più piccola mi ci ero soffermata a pregare! Feci un giro per i corridoi, entrai in cappella e tornai nuovamente in giardino. Avevo trascorso otto anni della mia vita in quella scuola e ora al pensiero di lasciarla per sempre provavo una punta di malinconìa; certo, c'erano stati i miei dispiacere con il teatro e gli screzi con la signorina Cappello che non voleva capire che per il compito di latino avevo bisogno di più tempo, ma per il resto non mi ci ero trovata male, anzi ne avrei conservato dei bei ricordi. Ero convinta che non avrei mai più messo piede al S.Caterina, non potevo sapere che il destino invece mi ci avrebbe fatta tornare dopo tre anni e non come studentessa, né potevo sapere che la serie di eventi che mi ci avrebbe riportata sarebbe cominciata da lì a un minuto, proprio nel momento in cui Clara mi raggiunze raggiante: "Per la promozione i miei mi regalano il registratore, l'ho già scelto e il babbo ha detto che andiamo subito a comprarlo, se dopo pranzo vieni a casa mia lo proviamo."
Dopo una merenda a base di tè e biscotti Clara accese il suo mitico registratore: "Che facciamo?" chiese, "recitiamo qualche poesia o prendo il copione dell'ultima recita?"
"Il copione" risposi
"il dialogo tra la regina e la pastorella va bene?"
"Si, io faccio la pastorella."
Cominciammo a registrare, la mia amica leggeva, io non ne avevo bisogno perché conoscevo a memoria tutta la commedia.
Stavamo riascoltando soddisfatte la nostra bella esibizione quando entrò Gilda, la sorella maggiore di Clara; la conoscevo poco perché aveva diciotto anni e non si intratteneva mai con noi.
"Che state facendo?"
"Abbiamo registrato una cosa, vuoi ascoltarla? Sentirai quanto è brava Anna."
Riportando indietro il nastro Clara mi disse:
"Sai? Gilda è un'attrice, recita con una filodrammatica." "Oh niente di speciale," si schernì l'altra, "siamo tutti dilettanti, però il pubblico ci apprezza" mi spiegò che quella compagnia era composta da persone tra i diciotto e i sessantacinque anni, erano impiegati, casalinghe, studenti e operai, il regista, Riccardo vivaldi era un impiegato comunale, ma era scrupoloso ed esigente come un professionista; nessuno di essi aspirava a diventare famoso, tutti recitavano per passione, perché il teatro ce lo avevano dentro.
"in questi giorni stiamo provando Giulietta e Romeo ed io sono Giulietta"aggiunze, poi ascoltò attentamente la registrazione.
"Clara ha ragione" disse infine, "sei proprio brava." "e pensare che a scuola non l'hanno mai fatta recitare," la informò la mia amica.
"Perché"
"per colpa dei miei occhiali." Risposi amareggiata.
"E' un peccato," commentò Gilda, "un vero peccato." Riflettè per qualche istante poià.
"Ti piacerebbe recitare con me e i miei amici? Proviamo la sera giù nel semi interrato, se resti a cena poi ti presento al regista e magari gli facciamo ascoltare questo nastro. Che ne dici?" "Mi piacerebbe" sospirai, "ma quello appena vedrà i miei fondi di bottiglia dirà di no."
Gilda rise:
"Figurati! Abbiamo già Flora, se si toglie gli occhiali è cieca come una talpa, ma se la cava benissimo e il pubblico nemmeno se ne accorge." Fu così che quella sera stessa entrai a far parte della compagnia Vivaldi. Per tutta una settimana andai ad assistere alle prove per imparare, poi partii per le vacanze e a settembre cominciai a lavorare sul serio. Riccardo vivaldi fu per me un grande maestro, ma per la mia formazione furono importanti anche Bianca e Giorgio, i due attori più anziani, e Flora, aveva un paio di occhiali molto simili ai miei e mi insegnò alcuni piccoli trucchi per muovermi con maggior disinvoltura sulla scena.
Debuttai quello stesso anno, il ventisei dicembre, nel teatrino di un circolo culturale; avevo una piccola parte, entravo solo due volte in scena vestita da cameriera, ogni volta recitavo una battuta e uscivo. Era solo una particina, ma per me era già una conquista.
Erano trascorsi tre anni quando Riccardo decise di rimettere in scena Giulietta e Romeo. Davo per scontato che la parte di Giulietta sarebbe toccata nuovamente a Gilda, quindi rimasi alquanto sorpresa quando inveece fu affidata a me. Ero felice perché finalmente sarei stata la protagonista, ma allo stesso tempo avrei voluto tirarmi indietro: quel ruolo era così impegnativo che ne provavo spavento, temevo di non avere abbastanza esperienza per riuscire a sostenerlo.
"Perché proprio io?" Chiesi a bassav oce.
"Perché è una parte che ti si addice." Rispose Riccardo sicuro. Se lo diceva luià.
Cominciarono le prove e furono davvero stressanti; sembrava che Riccardo fosse diventato più esigente che mai, malgrado tutta la mia buona volontà non era mai soddisfatto e mi interrompeva continuamente facendomi ripetere più e più volte le stesse battute. Una sera dopo un suo ennesimo: "No! Non va bene, ricomincia da capo." Esasperata scoppiai in lacrime.
"Se non sono all'altezza," gli gridai, "perché non ridai la parte a Gilda?" Egli cambiò subito espressione e mi sorrise.
"Sei all'altezza, ma voglio che tu sia perfetta e sai perché? Perché andremo a recitare nella tua vecchia scuola. Coraggio signorina, è ora di prendersi una rivincita." Da quel momento fu come se qualcuno mi inseguisse continuamente con una frusta: provavo insieme agli altri, poi da sola a casa, ripetevo le battute davanti allo specchio, le registravo per verificarne l'intonazione e tormentavo mio padre e mia madre perché mi ascoltassero. Il mio impegno fu tale che quando giunse il gran giorno ero sfinita.
Mancava ancora mezz'ora all'inizio della rappresentazione, ma io ero già pronta e mi guardavo allo specchio; con quel vestito, il trucco e la parrucca quasi stentavo a riconoscermi. La mamma che mi aveva aiutata a vestirmi mi abbracciò sussurrando: "Fatti onore." E uscì per andare a prendere posto in sala accanto a papà. Presi il mio sgabellino pieghevole e salii la scaletta del palco scenico, avevo l'abitudine di metterlo dietro una quinta per posarvi sopra gli occhiali in modo da averli a portata di mano ogni volta che uscivo di scena. Sistemato lo sgabello mossi qualche passo sul palco; non trovo le parole per descrivere l'emozione che provai nel trovarmi finalmente in quel luogo che mi era sempre stato vietato. Attraverso le spesse tende di velluto rosso mi giungeva il brusìo della sala, sbirciai da una fessura e la vidi: la signorina Cappello era seduta in prima fila insieme alle colleghe, la madre superiora e il vescovo, la signora Nardi, la mia maestra delle elementari, non c'era perché ormai insegnava alla scuola pubblica.
"Che stai guardando?" Chiese Riccardo che era salito sul palco per controllare che tutto fosse in ordine, mi volsi e gli presi le mani: "E' lì! La signorina Cappello è lì, in prima fila!" "Non pensarci, quando entrerai in scena la sua presenza non dovrà distrarti, dovrai essere solo Giulietta."
Dovevo essere Giulietta e lo fui fino in fondo, fino a quando mi accasciai al suolo abbracciando Lorenzo Damiani, il mio Romeo, che senza muoversi mi soffiò nell'orecchio:
"Sei stata grande."
Quando il sipario si chiuse su uno scroscio di applausi tirai un sospiro di sollievo: era fatta, allora ondate di sangue mi affluirono al viso facendomi avvampare.
"Come sono andata? Chiesi a Riccardo che nel frattempo era comparso sulla scena insieme agli altri,
"Bene, benissimo."
"Sei tutta rossa," rise Gilda,"dovresti vederti, sembri un peperone." Si avvicinava il momento magico, il momento in cui tutti gli attori si ripresentano sulla scena per riscuotere l'omaggio del pubblico.
"Prima Anna e Lorenzo" ordinò il regista,"poi tutti insieme." Lorenzo andò subito a mettersi al suo posto, io invece mi diressi allo sgabellino.
"Che fai? Ti metti gli occhiali?" chiese Riccardo,
"Vorrei poter vedere la sala." Risposi con il respiro rotto dall'emozione "Ma dai!" rise dandomi una sonora pacca su una spalla, "di' piuttosto che vuoi vedere la faccia di quella lì" Quando il sipario si riaprì scoppiò un altro clamoroso applauso. Ero frastornata, mi sembrava di vivere in un sogno e come in un sogno vidi mio padre e mia madre in terza fila che si erano alzati e mi salutavano agitando le mani; ricambiai il saluto poi abbassai lo sguardo sulla prima fila. Anche la Cappello si era alzata in piedi e si spellava le mani gridando: "Bravi! Bravi!" La solita esagerata. Tutti nella sala poterono vedere gli scintillanti fondi di bottiglia sul naso di Giulietta, ma anche così la mia ex insegnante di lettere non mi riconobbe.
Mi tolsi la parrucca e mi ripulii con cura il viso, poi sfilai il costume per indossare l'elegante abito di velluto nero che la mamma mi aveva cucito per l'occasione. Ora ci attendeva il rinfresco nel refettorio: uno stanzone piuttosto squallido che nelle grandi occasioni le abili mani e l'inventiva di suor Giuseppina riuscivano a trasformare in un salone grazioso ed accogliente. Quando vi entrammo erano già tutti lì e ci si affollarono subito intorno, ma la signorina Cappello sgomitando a destra e a sinistra riusciì a farsi avanti per stringere calorosamente la mano a Riccardo.
"Signor Vivaldi! I suoi attori sono eccezionali!"
Volle stringere la mano anche a Lorenzo poi volgendo lo sguardo intornoà.
"Ma Giulietta dov'è? Vorrei complimentarmi anche con lei. Oh scusate, ma senza i costumi non vi riconosco più."
In quel momento mi vide:
"Oh ci sei anche tu? Sei venuta a vedere la recita? Ti è piaciuta? Oh, ma ora scusami cara, devo cercareàà.."
In quella sopraggiunse la superiora:
"Via, signorina Cappello! Non vorrà tenersela tutta perr sé!" e mi abbracciò con foga stampandomi due bacioni sulle guance.
"Brava, bravissima! Sembravi un'attrice consumata, hai reso veramente onore alla nostra scuola."
La cappello sgranò tanto d'occhi:
"Maàperché? àà.recitavi anche tu?
"Signorina!" si stupì la reverenda madre, "non mi dirà che non l'ha riconosciuta, era Giulietta!" Poi rivolgendosi a me falzamente severa: "tu però sei stata una gran birmona, in otto anni trascorsi qui non ti sei mai degnata di recitare per noi." Lanciai un'occhiata alla Cappello che ora mi guardava anziosa, ecco, era il momento, senza volerlo la madre superiora mi aveva dato l'occasione di prendermi la tanto sospirata rivincita.
"Avrei voluto," risposi con voce chiara scandendo le parole, "ma non mi è stato mai permesso, la signorina Cappello e la signora Nardi temevano che rovinassi tutto con i miei movimenti impacciati."
"Movimenti impacciati? Ma io non ne ho visti."
"Behàcredevo..pensavoà." cominciò la professoressa
"Certo," la interruppi, "credevano, pensavano e così credendo e pensando non mi hanno mai dato l'opportunità di provare." Ora la prof era visibilmente imbarazzata e annaspava cercando le parole e forse fu proprio per toglierla da quell'imbarazzo che la madre superiora rivolta ai miei compagni gridò:
"Venite, ci vuole un brindisi."
Poi mi prese per un braccio e mi trascinò verso la tavola del rinfresco.
Carissimi lettori,
in questo numero affrontiamo il problema dell’integrazione nel mondo del lavoro e della scuola dei diversamente abili: troverete nel nostro sito www.gio2000.it, nel link servizi utili, la legge n. 68 del 12 marzo 1999 sul collocamento obbligatorio dei disabili, la legge n. 113 del 29 marzo 1985 che riguarda i centralinisti non vedenti ed ipovedenti e la legge sul sostegno scolastico.
Le leggi saranno pubblicate e consultabili integralmente.
I soggetti disabili hanno gli stessi diritti, al lavoro e allo studio, come i “normodotati” ma nonostante ciò si verificano ancora casi di emarginazione sia nell’ambito scolastico che lavorativo.
Conoscere alcune delle normative in materia, pubblicate sul sito, aiuta ad affrontare meglio e in modo più determinato le varie situazioni sociali che quotidianamente viviamo.
Per ulteriori informazioni potete scrivere a l.palmieri@gio2000.it
Riferimenti di Legge:
Legge N. 68/99 Legge N. 113/85 Legge N. 104/92
Eppure ieri sera l’ho accarezzato,
riposava al centro del mio cuore,
e questa mattina se ne era andato,
lasciando un involucro di stupore,
curiosità, inspiegabile assenza,
ma tant’è: si è dissolto il mio amore;
che dire? Aveva un’importanza immensa,
scomparsa in una notte, - ecco la realtà -,
senza nessuna conseguenza.
Adesso basta: voglio mettere l’Himar,
lo appunterò con la spilla in argento,
per recarmi alla Moschea, in città,
già il muezzin diffonde il suo lamento…
E passeggiando nelle strade centrali,
cercherò il mio amore, disperso nel vento,
come una farfalla con grandi ali,
o uno spettro svanito nel cielo, lassu,
sbircerò nei vicoli laterali.
Forse è nascosto nella Moschea blù,
su uno degli alti minareti,
o dietro l’obelisco di Teodosio, laggiù,
al riparo da occhi indiscreti…
O nel palazzo del sultano,
nei padiglioni, tra le pareti…
Chissà se è giunto ancor più lontano:
nel Gran Bazaar, tra tappeti ed oro,
filati e ricami… Sarebbe strano…
Che si sia immerso nel Corno d’oro?
E se si fosse fermato nel Mercato
delle Spezie, tra le foglie di alloro?
Probabilmente si è insinuato
Tra i mosaici di Santa Sofia…
Volevo chiedergli perché se ne è andato
ma ormai non importa: non ho nostalgia,
pur se lo potessi ritrovare,
non risorgerebbe la poesia,
quello che è stato, non può tornare.
Come sappiamo, l’io e il noi, sono due pronomi personali della lingua italiana che indicano una o più persone di significato opposto.
L’ ”Io” è un pronome singolare, si riferisce cioè sempre ad un singolo individuo per quel che dice, per quel che fa , per quel che produce ecc..
Se l’”Io” è singolare, il “Noi” è plurale, è evidente quindi la loro differenza che connota anche il carattere dell’uno e dell’altro.
Il “Noi” è sempre riferito a più persone che si esprimono attraverso una singola persona con la quale si sono impegnati in una stretta collaborazione per la realizzazione di un dato “Quid”.
Al tempo dei re, vi era il “Nos Maiestatis”. Questo però è un “Noi” che indica la solo persona “Augusta” del regnante che attestava il suo potere ponendolo al di sopra di tutti i suoi sudditi che lui rappresentava con la legittimità del suo “Nos”. Per fortuna il tempo dei re è per sempre passato e oggi abbiamo l’uso del “Noi” in senso schiettamente Democratico.
Ritengo opportuno evidenziare qui qualche carattere particolare che diversifica i due pronomi.
L’ “Io” esprime un egocentrismo che manifesta una presunta superiorità del soggetto che si considera al centro di tutte le attenzioni come protagonista insostituibile di ogni fare. L’egocentrismo porta naturalmente all’egoismo, per cui possiamo notare la scarsa considerazione in cui vengono tenute le altre persone collaboratrici, non riconoscendo il loro fattivo operare.
Un simile “Io” non porta al riconoscimento dei meriti altrui; non porta alla socievolezza né ad atteggiamenti democratici.
Il “Noi” si pone su altre basi e su altri atteggiamenti. Il “Noi”, infatti, è collaborativo, è riconoscitivo dei meriti altrui, è apertura mentale, socievolezza e altruismo solidale.
Penso che in un regime democratico l’”Io” nel modo sopra descritto, non dovrebbe più avere senso. Infatti, oggi, chi più e chi meno, possiede molteplici esperienze e una attenta intelligenza, perseguendo ideali religiosi, morali, politici e sociali che dovrebbero poter favorire una maggiore comprensione dei problemi esistenziali e relazionali. Penso che non bisogna essere filosofi o persone di alta cultura per capire che in questo mondo siamo tutti nella stessa barca e che tutti dovremmo impegnarci per raggiungere l’approdo più rassicurante. Non c’è certo bisogno di conoscere la morale del filosofo romano Seneca del I secolo a.C., per pensare che apparteniamo tutti alla stessa umanità con tutti i suoi bisogni e quindi dovremmo avvertire una maggiore fratellanza. Per comprendere questa condizione sono anche convinto che basti conoscere il contenuto dei Vangeli, la predicazione di Gesù che invita tutti gli uomini alla virtù, all’amore, alla carità e umiltà cristiana, alla comprensione, al perdono e al rifiuto dell’odio e della violenza. Ma l’umanità non è omogenea e quindi non possiamo non accettarci così come siamo con tutti i pregi e i difetti che l’uomo ha. Ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che gli esseri umani sono gli unici esseri perfettibili e quindi sarebbe giusto tendere sempre ad un continuo miglioramento del proprio essere.
Il regime Democratico in cui fortunatamente oggi viviamo, è una condizione positiva che dovrebbe spingere ciascuno a realizzarsi in una vita libera e di apertura al rispetto reciproco, all’aiuto e alla collaborazione.
Purtroppo credo di poter constatare che, pur essendo trascorsi quasi settant’anni dall’affermazione della Democrazia in Italia, non credo che ci si sia impegnati al conseguimento di una migliore realizzazione di vivibilità. Continuando l’argomento che intendo qui trattare, possiamo rilevare quanto poco ancora oggi sia utilizzato il “Noi”. Il suo uso non solo sarebbe un riconoscimento della fattiva collaborazione altrui, ma dimostrerebbe anche l’esistenza di una personalità giusta equa ed equilibrata.
Gli enti pubblici e privati, le assemblee, i comitati di qualunque natura, le associazioni, le cooperative e quant’altro di collettivo si reggono su principi regolamentari che indicano le cariche che vanno assegnate ai singoli dirigenti: il Presidente, il Consigliere Delegato, il Vicepresidente e i singoli Consiglieri. È nell’ambito di questa organizzazione che si svolge sempre un’opera collaborativa. Ma è anche vero che spesso, nel relazionare, il “ Capo” usi l’”Io” e non il “Noi”. Non possiamo non riconoscere che il lavoro realizzato in questi enti sia il risultato della collaborazione dell’intero team. Stando così le cose, il presidente nell’affermare l’ “ ho fatto”, l’ “ho realizzato”, “io ho ottenuto” ecc.., non fa che attribuirsi anche quanto non è suo: la sua è una appropriazione indebita.
Io non riesco a capire come persone intelligenti, titolate e anche dotate di un certo buonsenso, non si rendano conto di questa mancanza di rispetto.
O meglio, mi rendo conto e capisco che spesso si tratta di persone egocentriche e quindi egoiste, piene di sé e superbe, anche se a volte nascondono tale boria con atteggiamenti bonari e paternalistici.
A volte ci troviamo di fronte a individui carismatici che impongono la propria volontà. Con il loro comportamento carismatico, l’egocentrismo raggiunge l’acme e coincide con un egoismo altrettanto invasivo. Le riunioni, allargate o ristrette, con simili personaggi, si concludono sempre con delibere prese all’unanimità, unanimità che, se consueta, si trasforma in un’inaccettabile e deleterio unanimismo, inammissibile in una società democratica.
In merito, devo purtroppo rilevare che tale prassi è sempre invalsa anche nella nostra Unione. E se in un certo senso tale condizione poteva essere comprensibile nei primi decenni della vita della nostra Unione, non è più giustificabile da quando con l’acculturamento dei ciechi non c’è più carenza di persone che possano aspirare anche alle più alte cariche associative. Finora solo qualcuno ha manifestato il suo pensiero critico.
Per fortuna oggi 29 settembre 2010, alla vigilia del Congresso Nazionale, pare che ci sia fra i Delegati un certo risveglio democratico, a cui voglio illudermi non siano stati estranei i miei articoli sempre concretamente critici.
Concludendo, voglio fare l’amara constatazione che la parola e l’esempio di Gesù di Nazareth, figlio di Dio o semplice uomo che sia, l’insegnamento dell’ateniese Socrate, l’esempio coraggioso dell’indiano Mahatma Gandhi, la lotta in favore dei derelitti negri d’America di Martin Luther King, l’umiltà e la carità veramente cristiana della piccola, ma indomita Suor Teresa di Calcutta , esempi luminosi e illuminanti, pare che siano rimasti in superficie e non siano penetrati nelle coscienze, rimaste poco sensibili al dolore e alla sofferenza di tanta parte dell’umanità.
Cari lettori,eccoci ad una nuova puntata della rubrica dedicata al buonumore!
Sperando che anche questa volta riesca a rallegrarvi,auguro a tutti voi buon divertimento con questa selezione di barzellette scelte da me personalmente.
1)
Mentre due pigroni fanno la pennichella all'ombra di un albero,lungo la strada arriva un furgone portavalori che perde il controllo dall'altra parte del campo.
Nell'aria si spargono migliaia di banconote,uno dei due alza la testa e dice al compagno: be amico mio,se si alza il vento siamo ricchi!
2)
Dottore,mi sa dire perchè ogni volta che prendo il caffè mi viene una fitta all'occhio?
Il dottore le risponde: ma mi scusi ha provato a togliere il cucchiaino dala tazzina?
3)
Un celebre scrittore si lamenta del figlio con la moglie: "Che disastro quel ragazzo! Fra tutte le mie opere, lui è la peggiore!". "Non rattristarti, tesoro" lo consola la moglie,
"non è opera tua!"
4)
Un contadino scorge un ragazzetto sopra un ciliegio del suo campo. Minaccioso gli urla: "Scendi giù e dimmi subito il tuo nome!".
"Perché vuol sapere il mio nome?"
"Per correre subito a casa tua a riferire a tuo padre dell'accaduto!" "Be', non c'è bisogno che si precipiti a casa mia: mio padre lo può trovare in cima a quell'altro ciliegio lassù..."
5)
La signora rincasa dopo aver sostenuto l'esame di guida.
Il marito le domanda:
"E allora, com'è andata?". "Non lo so."
"Come, non lo sai? L'esaminatore non ti ha detto nulla?"
"Nulla. E' ancora svenuto..."
6)
In una notte d'inverno, due fantasmi si apprestano a uscire. Fuori nevica da ore. Il primo, dopo aver osservato il manto nevoso, esclama: "Adalberto, questa sera dobbiamo proprio uscire con le catene?".
7)
Perché Mosè si fermò davanti al Mar Rosso?
Perché aspettava il verde!!!
8)
In una cittadina due fratelli ricchissimi,ma avari e senza cuore,hanno respinto molte volte la richiesta del parroco di un'offerta per riparare il campanile che rischia di crollare.
Quando uno dei duemuore,l'altro si reca dal parroco con un assegno,dicendo: ecco i soldi per il campanile,a patto che nell'orazione funebre lei dica che mio fratello era un santo.
Il prete accetta, e il giorno del funerale recita: era un immorale,un miscredente,un avaro.un affarista senza scrupoli,ma in confronto a suo fratello qui presente.era un santo!
9)
Due ragazzini.lui,cosa ne pensi della donazione degli organi?
lei pensa un po e poi risponde:
sonofavorevole perchè e una cosa utile!
e lui: allora me la dai?
10)
Una vecchietta ogni mese va a riscuotere la pensione e, essendo analfabeta, firma con una croce.Un bel giorno l'impiegato delle poste vede che invece di firmare con la solita croce ha tracciato un quadrato.Stupito le chiede: "Scusi, signora, lei ha sempre firmato con una croce, come mai oggi firma con un quadrato?"-"Oh, scusi, non glielo avevo detto.Sa, mi sono risposata e quindi ho cambiato cognome!"
11)
Da un po' di tempo all'obitorio spariscono tutte le mani dei cadaveri. La Polizia, dopo un lungo appostamento, prende in flagrante una vecchietta e l'arrestano.
"Ma perché tagliava le mani dei morti..?" - Chiede l'Ispettore - "Sa, io sono una chiromante in pensione e se la sera non leggo qualcosa non riesco ad
addormentarmi..!"
12)
Il vecchietto al vigile: "Scusi, dove posso trovare una pensione modesta?". "All'inps risponde il vigile!